Cosa spinge un manager come Sergio Marchionne a rischiare così tanto, a tentare «un secondo miracolo», dopo quello di aver salvato la Fiat? Se lo chiede l’Economist che questa settimana mette in pagina un profilo molto positivo del manager italiano, definito «un pokerista» che ama «essere cacciatore e non una preda».



Secondo il settimanale britannico, infatti, il motivo che spinge Marchionne a tentare di salvare la Chrysler è «molto semplicemente, perché lo ha già fatto prima», quando Fiat stava «morendo» ed era ormai «sinonimo di fallimento ad ogni livello».

«L’approccio di Marchionne alla Chrysler, se l’accordo andrà in porto, sarà molto simile a quanto fece quando arrivò in Fiat nel 2004», quando «smantellò la struttura organizzativa rimuovendo un gran numero di dirigenti che era lì da molto tempo e che rappresentava uno stile operativo incomprensibile e al di fuori di ogni dinamica di mercato».



«La convinzione di Marchionne, che Chrysler possa essere salvata usando la stessa medicina che resuscitò Fiat, non spiega però la ragione per la quale lui stesso si metta in gioco per tentare un secondo miracolo, con il rischio di danneggiare la sua reputazione».

La risposta – scrive l’Economist – è che Marchionne resta «convinto che la crisi del mercato dell’auto porterà ad un processo di consolidamento e che la Fiat, nonostante i suoi recenti successi, abbia ancora una dimensione inferiore della metà di quella che sarebbe necessaria per sopravvivere sul mercato nel futuro. E, anche se probabilmente non sarebbe pronto ad ammetterlo, ha fatto molto di più di quanto avrebbe potuto fare con la Fiat allo stato attuale: perché non c’è affare più soddisfacente e divertente che fare il cacciatore e non la preda».