Brilla il sole all’ora di pranzo in Buckingham Palace Road, un sole caldo che sa di primavera nonostante il mattino di Londra regali ancora un freddo intenso. Qui al numero 111, proprio a due passi da Victoria Station, ha sede la redazione centrale del Daily Telegraph, un grande palazzo di metallo e vetro con caldi interni in legno.



Il G20 è terminato da pochi giorni e qui, nel cuore di Londra, è avvenuto un evento quasi senza precedenti: alcuni dei più importanti manager di hedge funds hanno accettato l’invito del quotidiano a sedersi attorno a un tavolo per prendere la parola e difendersi dalla accuse della piazza e della politica di essere la causa principale della crisi economica.



Crispin Odey della Odey Asset Management, Stuart Roden della Lansdowne Partners, David Yarrow della Clareville Capital, Stanley Fink della Isam, Charles Price della Palmer Capital e Jeremy Charles del Thames River Capital coordinati dalla giornalista Louise Armitstead hanno lanciato la loro minaccia e il loro avviso a chi intende fare loro la guerra attraverso una regolamentazione più stringente e penalizzante: «Non abbiamo bisogno di Londra, gli svizzeri ci stanno facendo ponti d’oro per trasferire nella Confederazione Elvetica le nostre attività e alcuni di noi stanno pensandoci seriamente. È Londra, è il mercato ad aver bisogno di noi. Dei soldi che facciamo, dei posti di lavoro che creiamo, dal capitale che immettiamo sulle piazze borsistiche ormai esangui con books illiquidi, volumi bassissimi, volatilità alta che uccide l’investimento azionario medio».



Il loro, al di là della sfrontatezza, è un atto di accusa molto serio: «La questione in discussione è quella riguardante il futuro stesso del mercato: cosa vogliamo, una società libera basata sul libero mercato o vogliamo che il governo decida e regoli tutto. Non è stato forse un governo, quello Usa, ha creare le basi per la bolla immobiliare e il conseguente abuso degli strumenti derivati subprime? Non è stato forse uno Stato, sempre quello americano, a trasformare in un enorme baraccone parastatale un’ente come Aig, la più grande società di assicurazioni del mondo che nei fatti veniva trattata alla stregua di Fannie Mae e Freddie Mac? Quale sarebbe la nostra responsabilità, quella di aver scommesso al ribasso sullo stato di salute di questi e altri enti e averci guadagnato dei soldi? Penso che il problema sia questo: la politica utilizza gli hedge funds come facili capri espiatori perché altrimenti metà dei governi mondiali dovrebbe chiedere scusa ai propri cittadini e dimettersi. Se vogliamo parlare seriamente di questa crisi allora parliamo delle responsabilità di società di rating e regolatori, sono loro ad aver perpetuato e fatto incancrenire la situazione. Le banche centrali, poi, hanno smesso di comportarsi da controparti imparziali e hanno cominciato a recitare un ruolo da partecipante attivo nel mercato. Questo ha fatto precipitare la situazione, non gli hedge funds che infatti non sono stati aiutati da nessuno nonostante abbiano perso più di tutti per questa crisi».

In effetti, è vero. Nel 2007 in tutto il mondo gli hedge funds gestivano 1,9 trilioni di dollari, lo scorso anno 1,4. «Noi non abbiamo truffato vecchietti, pensionati o lavoratori salariati, non siamo Madoff. Anche chi tra noi ha esagerato con la leva ha fatto perdere soldi solo a investitori altamente specializzati, gente che sa i rischi che corre in determinati investimenti ad alto rendimento. Andiamo a vedere, invece, la leva su cui operavano le banche americane o britanniche, enti che dovrebbero garantire il credito e invece hanno operato come banche d’affari o fondi speculativi. Hanno truffato la gente due volte, prima tradendo il loro mandato e adesso utilizzando i soldi dei contribuenti per farsi salvare dai governi. Questo è lo scandalo».

Anche in questo caso, difficile dar loro torto. Anche perché, come ci tiene a sottolineare Jeremy Charles, «gli hedge funds rendono i mercati più liquidi ed efficienti e questo si traduce in minori costi sui prestiti per compagnie e individui. La nostra attività è vitale per la formazione stessa del capitale. Noi creiamo un ritorno, se qualcuno d’ora in poi vorrà trarre profitto dal credito o dall’azionario dovrà farlo attraverso di noi. Non è protervia, è un dato di fatto: la situazione attuale ci vede come unici protagonisti attivi e questa situazione, che per noi è positiva visto che i nostri investimenti godono della volatilità, non l’abbiamo né voluta né creata noi».

Inoltre, l’eccesso di regolazione potrebbe avere ricadute molto pesanti anche a livello occupazionale come già accaduto con la vecchia regolamentazione nota come Unit Trust. All’epoca il fatto che gli hedge funds non fossero autorizzati ad agire sul mercato azionario attraverso short-selling, hedging o levereging se non pagando una tassazione spaventosa rispetto ad altri soggetti come trader o banche, spinse i fondi a trasformarsi in entità off-shore operanti fuori dal paese. Negli anni, quindi, cinquantamila posti di lavoro che avrebbero potuti essere creati a Liverpool o a Newcastle sono stati creati in aree off-shore.

Altro punto chiave è quello che vede gli hedge funds sul banco degli imputati per il crollo di aziende e banche in crisi devastate dal loro short-selling. «È vero, molti di noi hanno shortato Lehman Brothers prima che crollasse ma il problema è che Lehman si è posta in condizione di essere oggetto di speculazione, non che i fondi l’abbiano fatto. Vogliono introdurre il bando sui titoli finanziari? Benissimo, nessun problema basta che ci garantiscano più flessibilità in altri settori. Noi non vogliamo distruggere l’economia né tantomeno creare disoccupazione, sarebbe contro il nostro interesse: in un mondo più povero per noi sarebbe la fine, lo sanno tutti, politici e regolatori compresi. Basta guardare i dati: quando è stato tolto il bando sullo short-selling pochissimi operatori si sono posti “corti” sui titoli, eppure quei titoli sono continuati a crollare».

Insomma, l’operazione “simpatia” è partita. Il fatto stesso che per la prima volta manager di questo calibro si siano seduti attorno un tavolo e abbiamo messo da parte la loro proverbiale discrezione è un segno dei tempi. La politica ne tenga conto prima di lasciarsi andare a pulsioni emergenziali e populiste che rischiano solo di creare più danni. Tanto più che «spesso sono manager di aziende che scommettono solo sul lungo a spacciarsi e mascherarsi da hedge funds per caricare sugli investitori i nostri onorari, più alti perché garantiamo ritorni più alti». Insomma, fare di tutta l’erba un fascio oggi più che mai è un esercizio non solo sterile ma dannoso.