Proviamo a rispondere alla domanda di herr Günther Verheugen, commissario Ue all’industria. Non da ieri in odore di nazionalismo pro-Volkswagen (o Bmw, se preferite), dati gli atteggiamenti assunti in materia di “auto verde” piuttosto che per l’incapacità di aver saputo imporre uno standard europeo per gli aiuti all’auto, da opporre ai piani Usa. Ma dove pensa di prendere i soldi la Fiat per chiudere l’operazione Chrysler prima, quella Opel poi? Per rispondere, è necessario fare un passo indietro.



1) La situazione del mercato dell’auto è, a livello globale, semplicemente drammatica. La capacità produttiva mondiale è di un buon 40% superiore alle possibilità di assorbimento della domanda. Per giunta, una buona parte degli stabilimenti si colloca a ridosso dei mercati più maturi: Europa dell’ovest, Usa e Giappone. Nel corso degli ultimi anni, invece di affrontare il problema, le varie strategie nazionali l’hanno aggravato: si sono costruite nuove fabbriche, soprattutto nei Paesi emergenti e della Nuova Europa. Non si è, in pratica, chiuso alcun centro di produzione. In Germania, ad esempio, è dal 1945 che non viene fermato un solo impianto per obsoleto che sia, nonostante i massicci investimenti in repubblica Ceca e nel resto dell’Est.



2) Il risultato è che, nel suo complesso, dal ‘73 a oggi l’industria delle quattro ruote non “crea valore”. Ovvero, per uno che guadagna, l’altro perde. Il che sta a significare, in un’industria fortemente ciclica, che le soluzioni tradizionali (rinnovo dei modelli, marketing aggressivo) servono solo a rubare spazio alla concorrenza. Il tutto, all’interno di quella che Sergio Marchionne ha definito «l’arroganza del mondo dell’auto», ovvero la presunzione di fare tutto in casa, senza condividere con la concorrenza gli sforzi, senza badare al ritorno economico. L’esatto opposto di quanto è avvenuto nell’industria dei personal computer, basato sul modello “Intel inside”: cioè un processore unico o quasi (non dimentichiamo Amd) per tutti, spostando la concorrenza su altre caratteristiche.



3) In circostanze normali, a congelare la situazione, ha contribuito il carattere eccezionale del settore. Per ogni addetto all’auto, infatti, ci sono oggi sette posti di lavoro collegati, dalla componentistica all’assistenza post vendita passando attraverso la rete di distribuzione o la pubblicità. Nessuno, di fronte ai propri elettori, ha avuto il coraggio di avviare una ristrutturazione dai costi sociali elevati. Per giunta, dato l’alto valore emotivo di questo settore, il simbolo a ogni latitudine dell’orgoglio industriale. Di qui, in caso di crisi, il ricorso alle terapie tradizionali: aiuti pubblici diretti o mascherati, sostegno delle banche, nuovi investimenti per fare un prodotto competitivo. È quanto, in più occasioni, è servito a Chrysler (ma anche a Fiat) per uscire dalla crisi in pochi anni.

4) Ma questi, predica Marchionne, non sono tempi normali. La crisi ha semplicemente azzerato le disponibilità del mondo finanziario obbligando gli Stati (Usa o Germania) a sostituirsi con un impegno diretto. E il mondo dell’industria si deve ingegnare a trovare soluzioni al proprio interno, in una logica da baratto. Anche perché i soldi non sono tutto. Occorre saper fare in fretta, perché i 4-5 anni tradizionali per un completo rebuilding di un’azienda sono troppi; occorre, perciò, scambiare tecnologia, accorciare i tempi per la realizzazione dei nuovi modelli e condividere il più possibile le strutture commerciali e distributive. Nel mondo, tempo un paio d’anni, ci sarà spazio per 5-6 gruppi di dimensioni globali, capaci di produrre almeno 5-6 milioni di vetture su piattaforme capaci di sfornare almeno 1-1,5 milioni di “pezzi”, secondo la logica Wall Mart (grandi numeri per abbassare i costi).

5) In questa cornice, la Fiat, che non ha soldi, può mettere a disposizione due risorse preziose: a) una competenza nelle vetture a basso consumo (compresa la tecnologia multiair), preziosa per accelerare i tempi della trasformazione di Chrysler in un’azienda leader delle macchine a basso consumo, come vuole l’amministrazione Obama; 2) l’esperienza del management. Nel corso dei primi 60 giorni al Lingotto, cinque anni fa, Marchionne tagliò centinaia di teste, promuovendo una generazione nuova di dirigenti poi allenata in giro per il mondo alla guida delle varie filiali di Cnh. Intanto, le piattaforme produttive sono passate da 19 a 6, i tempi di realizzazione dei modelli dimezzati; c) le due aziende sono per certi versi complementari. Fiat ha bisogno di una rete produttiva e commerciale per gli Usa (dove sia 500 che Alfa hanno grande mercato), Chrysler è assente dall’Europa e dal Sud America. Inoltre, i marchi Dodge e Jeep possono rappresentare un’arma preziosa a livello globale, proprio in abbinata con trattori e macchine agricole.

6) Diverso, ovviamente, il discorso Gm/Opel. La casa tedesca ha una gamma di prodotti simile a Fiat, che fornisce tra l’altro Opel attraverso lo stabilimento di Tichy, in Polonia. Ma i 10 impianti europei di Gm sono tutti nel Nord Europa, i 9 Fiat, salvo l’eccezione della Polonia, nella parte Sud. L’accordo con Gm,.poi, potrebbe estendersi al Sud America (e, forse, al Messico) e alla britannica Vauxhall. La convenienza teorica c’è per tutti. A partire dai vantaggi di una massa critica di almeno 7 milioni di vetture.

7) Ma chi mette i soldi, insiste Verheugen? In parte lo Stato. Il tesoro Usa ha già messo in conto il costo della ristrutturazione di Chrysler. La condizione è che i soldi prestati dovranno essere restituiti prima di un eventuale passaggio della maggioranza (data possibile, il 2016). Per la Opel, Angela Merkel ha già promesso una dote di 3,3 miliardi di euro. Ma naturalmente, se andasse in porto un progetto così ambizioso, ci vorranno nel tempo nuove disponibilità. La via obbligata passa per una profonda rivoluzione dell’universo Fiat: separazione dell’Auto, oggi controllata al 100% da Fiat Spa, conferimenti in denaro o in natura di assets Opel (Chrysler, per ora, ha un valore economico solo teorico). Quotazione della nuova grande Fiat. Facile che il Lingotto rinunci alla maggioranza assoluta, se il piano avrà pieno successo. Facile che l’azienda, da italiana, diventerà almeno europea dal punto di vista delle quote azionarie. Facile che, alla testa, resti Marchionne, italo-canadese dalle sette vite cui i mercati finanziari, ma anche i sindacati (vedi l’ok ai tagli delle unions canadesi cui dovrebbe seguire l’intesa con l’ americana Uaw) hanno imparato a dar fiducia. Difficile che lo faccia herr Verheugen.

8) Ma tutto questo è il grande poker del 2009. E non è affatto detto che Fiat disponga di una scala reale. O che non ci sia una parte di bluff, che sta nelle regole del gioco. Ma gambler Marchionne ha offerto una soluzione a una delle più difficili quadrature del cerchio della grande crisi. Facile che altri, a partire da tedeschi e giapponesi, stiano già studiando la reazione. Ma Fiat ha accumulato un buon vantaggio giocando d’anticipo sul centro della crisi, gli Usa.