Un imprenditore edile va alla sua banca e chiede un finanziamento per avviare un nuovo progetto immobiliare. Il direttore di banca, che pur ha goduto per anni della prosperità della ditta, gli domanda come mai voglia rischiare di costruire invece di vendere il terreno. Alla risposta che lui non vuole solo massimizzare gli utili, ma lavorare e far lavorare i suoi operai perché vede l’utilità di ciò che fa, il direttore gli risponde che, pur essendo i parametri economici a posto lui non lo finanzierà e gli consiglia di rassegnarsi a vendere il terreno.



Un imprenditore che negli anni scorsi ha potuto spostare sul conto di famiglia consistenti utili di impresa, decide di reinvestire questi utili in azienda, convinto che con queste risorse finanziarie riuscirà ad affrontare il momento di crisi senza pesanti ristrutturazioni. Viene preso pressoché per matto dai suoi consulenti aziendali e da altri suoi amici imprenditori.



Un altro imprenditore concorda con i suoi dipendenti una riduzione dell’orario di lavoro e dello stipendio in modo da poter continuare a far lavorare tutti. Non vuole seguire l’esempio di suoi amici che stanno chiedendo la cassa integrazione o stanno approfittando della crisi per ristrutturare l’azienda. Viene assalito dalla rappresentanza sindacale di zona che lo accusa di corporativismo perché si è permesso di stringere accordi diretti con i dipendenti e gli chiede invece di attuare una cassa integrazione a zero ore.

Un altro imprenditore, avendo un’impresa ancora vitale, resiste alla tentazione di venderla a investitori stranieri particolarmente attratti in questo momento di crisi: si trova a doversi giustificare con molti suoi amici di un analogo milieu imprenditoriale che gli chiedono perché si è perso l’occasione di vivere una vita finalmente tranquilla.



Cosa ci insegnano questi e molti altri esempi analoghi che si possono riscontrare nell’attuale situazione economica?

Che la tendenza degli ultimi anni a ridurre il nesso tra guadagno finanziario ed economia reale ha portato a confondere il profitto con la rendita parassitaria.

Sembra, ad alcuni, che resistere alla bufera cercando nuovi mercati, nuovi clienti, nuovi prodotti non abbia più alcuna convenienza e quindi valore.

Senza scomodare scenari economici globali è ormai evidente che l’idea del profitto-rendita come unica o prevalente bussola dell’agire economico ha ormai fatto il suo tempo. Una visione ideale, una gratuità intesa come amore all’uomo e al ben comune, non possono essere confinati al commercio equo e solidale, alla responsabilità sociale di impresa o al microcredito di Yunus. Sono il pilastro portante di una ripresa economica in cui lavorare, investire, finanziare, scommettere sulla stabilità dell’attività economica di lungo periodo non è uguale a guadagnare speculando. Senza questa rivoluzione educativa – in cui tornare a sperimentare la convenienza, anzitutto umana, del lavoro come capacità di cambiare in meglio la realtà intorno a sé – non ci sarà nessun pur necessario intervento economico a salvarci dal declino. E forse, tra le nuove regole, non ne guasterebbe qualcuna che premi questi atteggiamenti virtuosi come detassare gli utili reinvestiti o eliminare l’Irap.

Pubblicato su Il Riformista del 4 Aprile 2009