È fatta. L’accordo con i sindacati nordamericani è andato in porto. Quello con le banche creditrici anche. E si dovrà passare attraverso una procedura di liquidazione, il chapter 11, solo perché gli hedge funds non hanno sentito ragioni. Ma nonostante questo dettaglio, è fatta.
La scommessa dell’amministratore delegato Sergio Marchionne è stata accettata dal totalizzatore e Fiat è riuscita nella straordinaria impresa di mettere piede nel mercato Usa, ottenere pianali e motori per auto di maggiori dimensioni e di acquisire una buona fetta di Chrysler, senza tirare fuori un euro dalla cassa. Un risultato eccellente. Anche perché non si tratta della vecchia azienda americana, quella che aveva un costo del lavoro intollerabile ed era assediata dai creditori. Ma di quella nuova che può contare su contratti calmierati con i dipendenti, su una lunga pace sindacale e, sopratutto, su una cassa piena di risorse fresche fornite dal governi di Ottawa e di Washington. Se solo cinque anni fa ci avessero detto che il presidente americano aveva elogiato pubblicamente la tecnologia della casa automobilistica torinese, avremmo pensato a una burla. E siamo certi che nessun presidente americano non sia mai neanche salito su un’auto Fiat.
Ora invece Barack Obama ha affidato al Lingotto (non ai tedeschi, ai francesi o ai mitici giapponesi del settore) i destini di una delle aziende di peso negli Usa e quelli di uno dei marchi storici, Jeep, che più si associa al concetto di vita americana. Visto dall’Italia e probabilmente anche negli Usa è una vera rivoluzione Certo, la partita non sarà facile e le tappe per arrivare a conquistare la maggioranza di Chrysler sono scadenziate con la pignoleria notarile. Ma Marchionne può giocarsi la partita. All’inizio Fiat avrà il 20% delle azioni e tre rappresentanti su nove nel consiglio di amministrazione, di cui uno indipendente per soddisfare il regolamento della Borsa americana. Poi Torino avrà il diritto di ricevere un’ulteriore partecipazione del 15% e un consigliere in più, ma questa quota verrà divisa tre tranche uguali, subordinate al raggiungimento di precisi obiettivi come la fornitura della piattaforma di una vettura dai consumi pari a 17 chilometri al litro da produrre negli Stati Uniti, quella di una famiglia di propulsori dai consumi contenuti da produrre negli Usa per equipaggiare le vetture americane e l’accesso alla rete di distribuzione globale Fiat per favorire l’export delle vetture Chrysler.
Solo a partire dal 2013 (e fino al 30 giugno del 2016) Fiat avrà l’opzione di acquistare a prezzo di mercato un ulteriore 16%. Ma solo se il debito nei confronti del Dipartimento del Tesoro statunitense sarà inferiore a 3 miliardi di dollari. E Fiat non potrà superare la quota di partecipazione del 49% fino a quando l’intero debito verso il Dipartimento del Tesoro statunitense non sarà stato rimborsato.
Washington vuole proteggere il proprio investimento, o meglio quello del taxpayer americano che sta finanziando il rilancio di Chrysler. Ma confida in Fiat e nella possibilità di rilanciare un’azienda ormai spacciata. E questa possibilità è legata anche all’impegno di Marchionne oltreoceano che probabilmente sarà tanto intenso e costante da dover ripensare anche ai vertici della casa automobilistica in Italia. Da alcune settimane a Torino si parla della possibile nomina di un direttore generale che possa sollevare l’amministratore delegato dalla gestione ordinaria. Ma per ora si tratta solo di voci niente affatto confermate.
Qualcosa di vero c’è, invece, nell’interesse del Lingotto per i destini di General Motors. Ma l’operazione Opel, l’acquisizione cioè delle attività europee di Gm, però, sembra più difficile rispetto a quella di Chrysler sia per la maggiore concorrenza, sia per l’accoglienza tiepida riservata a Fiat in Germania rispetto ad altri possibili investitori. Inoltre, la gamma di Opel è perfettamente sovrapponibile a quella di Torino e per questo un accordo è meno interessante dal punto di vista commerciale e più costoso in termini occupazionali, sia in Germania che in Italia. Diverso è, invece, il discorso, passato un po’ in secondo piano, di un interessamento del Lingotto per gli impianti Gm in Brasile. Fiat nel paese sudamericano è leader di mercato, seguita da Volkswagen e General Motors, ma, poco prima che la crisi rallentasse le vendite, aveva raggiunto la saturazione della capacità produttiva negli impianti principali che già lavoravano su tre turni. Marchionne lo scorso anno aveva annunciato un investimento di due miliardi di dollari per realizzazione di nuovi stabilimenti ed erano state individuate le aree, messe a disposizione dallo Stato del Minas Gerais. Poi la crisi ha fermato tutto. Ora che il mercato sta ripartendo Fiat dall’acquisizione degli impianti Gm potrebbe ricavare un doppio vantaggio: eliminare un concorrente dal mercato e allargare la propria base produttiva risparmiando denaro e soprattutto tempo.