“E’ un momento storico”. Nel giorno dell’enfasi nessun aggettivo è di troppo, ma questa volta Sergio Marchionne ha ragione. A lui è riuscito quel che perfino l’Avvocato e Cesare Romiti, con tutta la loro corte, avevano mancato. L’America, sognata, imitata persino dal fondatore, Giovanni Agnelli, restava un mito irraggiungibile. Il nipote ne amava e frequentava la high society, da Jackie Kennedy a Truman Capote o Henry Kissinger. Ma Gianni non parlava con i manager ruspanti, tanto meno con i sindacalisti di Detroit. Romiti non era fluente in lingue straniere.
I tempi sono cambiati, è chiaro. Questa crisi ha posto la Fiat di fronte a un dilemma stringente: o crescere o morire; oggi non è più consentito restare la più piccola dei grandi o la più grande dei piccoli. Così, la proprietà ha lasciato spago a Super Sergio, che prima l’ha salvata dal fallimento e adesso cerca di pilotarla verso porti più sicuri. Jaki Elkann proclama tutto il suo appoggio, poi aggiunge, riaffermando il diritto proprietario: se Marchionne va via, la panchina è lunga. Forse. Certo, nessuna delle riserve avrebbe centrato l’obiettivo americano.
L’erede dell’Avvocato ha già delineato la prospettiva di ridimensionare l’impegno della famiglia, mettendosi al riparo di una quota minoritaria dentro un gruppo più grande molto simile a una public company. Un progetto complesso, ed è solo all’inizio. Una vera impresa globale oggi ha quattro gambe: nell’America del nord, in quella del sud, in Asia e in Europa. Se il matrimonio con Chrysler andrà avanti con successo, la prima è assicurata. La seconda gamba è robusta in Brasile. La terza si chiama Tata, ma l’India non è sufficiente: è necessario penetrare in Cina dove Volkswagen e Toyota fanno da padrone. La quarta, ancora manca. Si è provato con Peugeot, ma “non è andata”, ha detto Elkann. Ora c’è l’occasione Opel, però il Modell Deutschland ha schierato tutte le sue Panzerdivisionen (governo, partiti, Laender, sindacati, banchieri) contro gli italiani.
Passate le celebrazioni, fin da lunedì a Detroit, quando verrà sospesa la produzione, cominceranno i problemi. Il ricorso al capitolo 11 della legge sulla bancarotta, che disciplina un’amministrazione controllata, non era la soluzione ottimale né per Fiat né per l’amministrazione. Obama se l’è presa con l’ingordigia speculativa dei fondi i quali hanno rifiutato di seguire l’esempio delle grandi banche le quali si sono accollate perdite per quasi cinque miliardi. Ma gli istituti di credito sono stati salvati con i quattrini dei contribuenti, era difficile per loro dire no al Tesoro. I prossimi due mesi, dunque, passeranno in tribolazioni giudiziarie.
Nel frattempo, occorre varare un vero piano produttivo: quali marchi resteranno, quali modelli, quali stabilimenti. La Fiat ha ottenuto moltissimo dai sindacati americani (compresa una tregua sociale fino al 2015), in cambio della maggioranza del pacchetto azionario. Ma ha un vincolo chiaro, ricordato dallo stesso Obama: la salvaguardia dei posti di lavoro. L’Alfa e la Ferrari sono belle bandiere, la 500, i motori “puliti”, la nuova vetturetta ibrida alla quale si sta lavorando, sono ottime innovazioni, tuttavia non riusciranno certo a riempire le linee di montaggio negli Usa e nemmeno in Italia. Gli italiani avranno tre posti su nove in cda, con il 20% di azioni. Poi possono salire. Prima di arrivare alla maggioranza, dal 2013, il risanamento dovrà essere completato con tanto di restituzione dei 6,5 miliardi prestati dal governo. Insomma, una corsa a ostacoli.
L’operazione Chrysler potrà spingere la produzione di nuovi modelli e componenti da esportare. E nello stesso tempo rende più cogente la ristrutturazione. I sindacati italiani non nascondono le loro preoccupazioni. Fiat ha una capacità produttiva in eccesso che non deriva dal ciclo congiunturale: dovrà ridurla proprio per cogliere al meglio la ripresa. Ci sono stabilimenti ridondanti come Termini Imerese, tenuti in piedi per ragioni politiche, oppure obsoleti come Pomigliano d’Arco che restano aperti per motivi di “ordine pubblico”. Se andasse in porto un’alleanza con Opel o con qualsiasi produttore generalista in Europa, la razionalizzazione delle piattaforme sarebbe ancor più drastica. Marchionne, una volta esaurito lo champagne, dovrebbe parlarne apertamente. In fondo, il governo e i contribuenti italiani hanno offerto un sostegno rilevante al salvataggio e al rilancio della Fiat e continuano a darlo, grazie agli incentivi. Super Sergio ha navigato in solitario al di là dell’Atlantico. Ma per varcare le Alpi, come si è visto, bisogna “fare sistema”.