Secondo i dati Ocse pubblicati ieri, lo stipendio annuo di un italiano medio senza carichi di famiglia è di 15.800 euro, una cifra che colloca il nostro paese al 23simo posto nella classifica dei trenta paesi Ocse. Una situazione preoccupante, sulla quale pesano un cuneo fiscale del 46,5%, bassa produttività, sommerso, ritardi e inefficienze strutturali. Retribuzioni così basse devono far pensare, dice l’economista Luigi Campiglio. Ma anche dire qualcosa sul da farsi.
Professore, come valuta un dato del genere?
Certamente in modo non positivo, perché per quanto approssimato rispecchia pur sempre una misura del nostro differente tenore di vita rispetto agli altri paesi più industrializzati. Questa analisi dell’Ocse viene fatta distinguendo le diverse tipologie familiari. I dati pubblicati sui quotidiani si riferiscono ai single, ma quelli riguardanti le famiglie non sarebbero molto distanti.
Siamo un paese più povero?
Siamo un paese che fa molta fatica a tradurre grandi enunciazioni e obiettivi ambiziosi in concreta realtà. Per risponderle senza troppi giri di parole: sì, siamo più poveri, sia pure in senso relativo. Siamo un paese avanzato, ma dietro paesi, come la Spagna, che sono nella loro fase aurea di crescita. Questo non è un buon segno.
Va detto che guadagniamo di meno, ma paghiamo anche molte tasse, con un cuneo fiscale del 46,5%.
È vero: abbiamo un cuneo fiscale elevato. E siamo un paese terribilmente vecchio: la percentuale di popolazione anziana che beneficia della redistribuzione di reddito è molto elevata. Non va però dimenticato, e lo provano le statistiche, che la redistribuzione di reddito monetario è più efficace in quei paesi che impegnano più risorse per la famiglia, i bambini e i disabili. Non è mai stato il caso dell’Italia.
Le vorrebbe destinare più risorse al welfare? Qui stiamo parlando di redditi dei lavoratori.
Sì ma vorrei esser chiaro: non sarebbe una redistribuzione assistenziale, ma qualcosa che la Francia fa da tempo, al pari di altri paesi, e che funziona. Questa redistribuzione di risorse è parte di un meccanismo istituzionale che consente a un paese, in una fase di crisi, di affrontarla con molta più forza e uscirne meglio. Rispetto al modello europeo siamo nella media della spesa, la questione vera è che spendiamo male. E aggiungo: le categorie sociali che risultano più penalizzate in termini di privazione materiale, anche dalle classifiche dell’Oecd, sono i giovani, le famiglie, le coppie con figli.
A suo avviso il dato dei bassi stipendi è indice di un mutamento sociale, per esempio del diffondersi di forme di contratto che non garantiscono un consolidamento della posizione lavorativa?
È un fatto che l’Italia, per la sua tradizione cattolica, ha quasi un “imperativo categorico” nell’accoglienza di quelli che vengono da fuori. Ma nello stesso tempo non si deve sottovalutare il fatto che nel nostro paese – come è avvenuto per altri fenomeni – questo afflusso di immigrazione è intervenuto in tempi troppo rapidi.
Con quali conseguenze?
Quella dei bassi salari per esempio, perché la gran parte di manodopera arrivata in questi anni ha riguardato o l’assistenza agli anziani o il settore delle costruzioni, che in Italia ha seguito il boom edilizio del resto del mondo ma che da noi è tipicamente fatto di bassi salari. Questo non ha giovato ad un paese caratterizzato da bassi salari e bassa produttività.
Arriviamo finalmente al nocciolo della questione: la nostra bassa produttività.
Sì. La questione della produttività è centrale, decisiva. È un concetto centrale ma un po’ sfuggente, perché si ottiene dividendo il valore aggiunto per il numero degli occupati, ma il valore aggiunto è la somma di salari, ammortamenti e profitti. Dunque in gran parte ci ritroviamo ai salari. Dire produttività più alta vuol dire in pratica reddito medio dei lavoratori più alto. Lo si ottiene in primo luogo incrementando la qualità del prodotto, e in secondo luogo agganciando la dinamica salariale alla produttività. Rappresenta l’incentivo fondamentale.
La riforma del sistema contrattuale, al centro dell’ultimo accordo sulla contrattazione, va in questa direzione?
Certamente. La produttività nel settore manifatturiero in particolare – ma non solo – da tanti anni in Italia è in declino. Secondo alcuni sarebbe un’illusione statistica: il prodotto e l’occupazione non sarebbero calcolati in modo corretto perché non si tiene conto dell’aumento del sommerso. Ma nel sommerso ci sono gli alti o i bassi salari? Siamo da capo. Anche ammesso che questa sia una spiegazione, l’aumento del sommerso è comunque un segnale ancor più negativo.
Non possiamo invocare la crisi perché la crisi c’è per tutti. Cosa dobbiamo fare per scongiurare il declino?
Sono convinto che la chiave per uscirne stia nel produrre beni e servizi ad alto contenuto di capitale umano e con un ragionevole orizzonte sul futuro, e in un aumento delle retribuzioni da lavoro legate al merito e non a posizioni di rendita. Nel 1996 per acquistare una casa occorrevano otto anni di reddito da lavoro dipendente. Oggi ne servono 12. La differenza è data dall’aumento dei costi di produzione? No, dalla rendita. In questo caso la rendita fondiaria. È la rendita a soffocare il paese e soprattutto i giovani.
E l’evasione fiscale?
Torniamo al discorso del sommerso. L’evasione fiscale divora il gettito tributario. Lei riesce ad immaginare la Mercedes o le grandi aziende farmaceutiche tedesche che fanno evasione fiscale in larga scala?
Vuol dire che è molto più facile che questo avvenga in un paese di micro e piccole imprese?
Non è detto. Le imprese tipiche italiane sono imprese familiari. E il loro problema è che il titolare confonde con troppa facilità le tasche dell’impresa con le tasche della famiglia. Occorre premiare quelle imprese familiari che reinvestono nell’impresa. È il nodo di tutto. Riusciamo a distinguere questa categoria di imprenditori da quella che tratta l’impresa solo come fonte di profitto? Io credo che si possa e si debba fare. I secondi sono imprenditori mordi e fuggi, i primi sono la spina dorsale del paese. Dipendono da loro le nostre chance di rinascita.