Oggi Sergio Marchionne, amministratore delegato della Fiat, presenterà alla Commerzbank, la banca pubblica incaricata di seguire il deal, la sua proposta per rilevare le attività europee della General Motors la cui parte prevalente è rappresentata dalla tedesca Opel. Poi la parola passerà alla politica di Berlino, in particolare alla Cancelliera Angela Merkel che dovrà decidere se accettare l’offerte di Torino, oppure se preferire quella dell’austro-canadese Magna, o ancora quella di un fondo di private equity americano che sembra essere entrato nella partita all’ultimo momento. Non si sa esattamente quando arriverà una risposta perché ad avere voce in capitolo sono in molti: la Gm, venditrice che sta per andare in fallimento e quindi è sottoposta a tutte le procedure previste dalla legge americana, la Merkel e anche il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, che sta profondendo ingenti risorse finanziarie per tentare di salvare il salvabile dell’industria dell’auto americana (alla sola Gm ha fatto arrivare 15 miliardi di dollari).
Con il passare dei giorni questo riassetto, questa grande rivoluzione dell’automotive mondiale, acquisisce sempre più aspetti politici e sociali, ormai prevalenti rispetto a quelli aziendali e finanziari. Marchionne dice (e finora nessun esperto ha preso la parola per contraddirlo) che dopo la crisi che ha messo alle corde il capitalismo e la sua cultura dei consumi, un costruttore di auto non può produrre meno di 6 milioni di pezzi all’anno. Solo così si ottengono quelle economie di scala (magico termine) che consentono a un settore maturo come le quattro ruote di riprendere a produrre ricchezza invece di distruggerla come sta facendo da una decina di anni a questa parte. Su questo ragionamento si basa l’imperativo di crescere, di fare acquisizioni anche se le condizioni finanziarie della Fiat (molto indebitata) teoricamente non lo consentirebbero. Di qui l’ingresso nel capitale dell’americana Chrysler (a costo zero) e il progetto appunto di rilevare (questa volta pagando) la tedesca Opel. Con questa doppia mossa la SuperFiat raggiungerebbe quella quota 6 milioni che le permetterebbe di competere con colossi come Toyota e Volkswagen.
Detto così sembra molto semplice. In realtà, lasciando da parte la Chrysler che opera su un mercato sul quale la Fiat è assente, l’unione di Opel e Fiat genera, oltre alle economie di scala, anche problemi giganteschi. Entrambe le aziende soffrono già di sovracapacità produttiva (utilizzano gli impianti all’incirca al 60 per cento) e mettendosi insieme avrebbero in alcuni segmenti dei doppioni. Marchionne, con grande abilità diplomatica, in questa fase sta cercando di convincere tutti che i marchi Fiat e Opel potranno sopravvivere appaiati, che il suo progetto non prevede tagli di impianti. Lo ha assicurato negli intensi incontri che ha avuto nei giorni scorsi con i politici tedeschi i quali, avendo finanziato l’auto nazionale, non vogliono vedere i loro fondi finire in mano a un gruppo straniero intenzionato a smantellare parte dell’apparato produttivo locale in nome dell’efficienza. Le garanzie date a Berlino hanno suscitato qualche preoccupazione in Italia e dello stesso segno: il ministro dello Sviluppo, Claudio Scajola, ha detto pubblicamente che gli sforzi di Marchionne per creare una grande multinazionale sono senz’altro apprezzabili e probabilmente vanno nella direzione giusta. Attenzione però: il governo non accetterà chiusure di stabilimenti in Italia da parte della Fiat visto che questa è stata spesso aiutata con soldi pubblici.
E così la partita Fiat-Opel, se davvero si giocherà, si sposterà dalle stanze dei consigli di amministrazione a quelli dei palazzi politici, diventati ormai di fatto gli azionisti di riferimento della quasi totalità dell’industria automobilistica mondiale. Con un rischio, preoccupante davvero: che si trasferisca anche sulle piazze. L’episodio di domenica scorsa a Torino quando un gruppo di Cobas ha assaltato il palco dei sindacalisti, è un brutto precedente. Ed evoca ricordi terribili di momenti che nessuno vorrebbe rivivere.