Ormai è diventata un’abitudine. Ogni fatto della vita quotidiana, se ritenuto meritevole, subisce un ricarico mediatico che lo trasforma in una notizia dotata di vita propria che ognuno può usare impunemente a sostegno delle proprie tesi. Così è accaduto anche sabato scorso quando, a Torino, durante la manifestazione dei lavoratori della Fiat (un’iniziativa frettolosa, equivoca nelle motivazioni e negli obiettivi), Gianni Rinaldini è stato aggredito da un gruppo di lavoratori (si dice) aderenti ai Cobas di Pomigliano d’Arco. Ed è caduto dal palco-camion mentre stava svolgendo il suo comizio.
Il fatto in sé è grave. Nel merito però, a mio avviso, non corrisponde al vero tutta quella letteratura che si è profusa negli ultimi giorni a commento della “defenestrazione” del segretario della Fiom. Si è trattato infatti di un’azione circoscritta da parte di un ben noto gruppo di facinorosi annidato in quello stabilimento (e nell’altro che loro chiamano reparto-confino di Nola). L’errore compiuto dai sindacati è stato quello di non prevedere la possibilità del colpo di mano e di non essersi organizzati per contrastarlo. Ma, per carità, guai a riconoscere ai Cobas di Pomigliano la rappresentanza del disagio popolare (che pure esiste), o a costruire su questo squallido episodio teoremi in merito all’insorgente conflittualità sociale che potrebbe spingersi fino al ritorno del terrorismo.
Ciò premesso, un aspetto va fatto notare: era la prima volta, dopo tanto tempo, che la Fiom prendeva parte ad un’iniziativa unitaria, quando invece la sua più recente linea di condotta era stata quella di definirsi punto di riferimento dei cosiddetti movimenti all’insegna del pas d’ennemi à gauche. Non è casuale, dunque, che lo strappo con i “radicali” di Pomigliano si sia verificato quasi come reazione rispetto alla svolta nella politica delle alleanze della Fiom. Anche il ministro Scajola ha notato l’elemento di novità di cui è intrisa – in mezzo a tante cose vecchie – la vicenda Rinaldini ed ha compiuto un’importante apertura nei confronti della Cgil. È fondato credere, infatti, che all’interno della Confederazione, non tutti siano disposti a restare in una posizione di autoisolamento, sterile ed impotente. Ma non si aprirà mai un dibattito vero fino a quando Epifani potrà denunciare che la patria Cgil è in pericolo, che il Governo vuole emarginare la più importante organizzazione sindacale dal sistema di relazioni industriali. È questo clima che induce a rinserrare le file e a tenersi per sé le critiche, per sottrarsi all’accusa di disfattismo e di tradimento.
Il vero tratto negativo della manifestazione di sabato è un altro e chiama in causa la linea dei sindacati sull’operazione Fiat-Opel-Chrysler. “Da Nord a Sud la Fiat cresce solo con noi” era uno degli slogan della manifestazione. Purtroppo o per fortuna, è vero il contrario. Fermo restando che delle soluzioni andranno trovate per gli stabilimenti italiani a rischio, una Fiat che si “chiudesse in casa” sarebbe condannata, in breve, a ripiombare nella situazione pre-fallimentare in cui versava soltanto pochi anni or sono. È vero allora che non può esservi una Fiat grande in Italia e piccola nel mondo, perché una Fiat prevalentemente italiana non sarebbe competitiva. Tutti affermiamo che da questa crisi usciremo diversi, poi ci spaventiamo quando siamo messi alla prova da una delle più importanti operazioni di politica industriale di questo scorcio di secolo. Speriamo soltanto che non siano i sindacati italiani (insieme a quelli tedeschi) a tirare troppo la corda.