In fila per tre con il resto di due. Questa in sostanza la filastrocca intonata a Berlino per dare in sposa la disastrata ma strategica Opel al miglior offerente. Alla fine, insomma, ne resterà soltanto uno tra Fiat, Magna e il fondo statunitense di private equity Ripplewood.

Il governo tedesco ha già intascato la lettera di intenti per la cessione della Opel ed entro una settimana emetterà il verdetto. Ci sono bazzecole da analizzare come la chiusura di stabilimenti e il taglio di circa 9 mila lavoratori. Se saranno italiani o tedeschi è ancora tutto da decifrare. Le aggregazioni sono comunque l’unica strada da battere per evitare il collasso generale e salvare il salvabile. E gli impianti Opel fanno gola a molti perché possono sinergicamente diventare redditizi se si arriva a una certa soglia produttiva (circa un milione di veicoli, obiettivo sulla carta raggiungibile a regime).



La Fiat, che ha annunciato anche una offerta per Vauxhall, è più che in pole position per una serie di ragioni, prima fra tutte un piano industriale degno di tale nome. Del resto il Lingotto punta a diventare una grande compagnia internazionale, secondo colosso al mondo dietro Toyota, e dopo Chrysler flirta pesantemente (e con mestiere da latin lover navigato) con General Motors per mettere nel garage la fiammante Opel.



Una parte dei finanziamenti verrà dai governi (quello tedesco dovrebbe mettere sul piatto 1,5 miliardi di euro), una parte da fondi e banche. Una cosa è certa: la Fiat non sborserà una lira, un euro, un cent, nulla di nulla. Metterà a disposizione i suoi asset, come ha già ribadito l’amministratore delegato Sergio Marchionne.

Sarebbe stato bizzarro il contrario, visto che la stessa Fiat è stata sostenuta (qualcuno azzarda “salvata”) dagli eco-incentivi del governo italiano. Ma queste sono sottigliezze in una nuova epoca storica dell’economia dove mercato fa rima con Stato e l’aggettivo liberale è confinato sull’Aventino perché (al momento) sembra diventato troppo chic.



Quello che comunque colpisce è la capacità negoziale di Marchionne, manager più affidabile di una Golf. Basta una sua dichiarazione rilasciata a Bloomberg tv per far capire che ha un telaio che fuma e una marcia in più degli altri. «La nostra offerta prevede un mucchio di asset – ha affermato Marchionne – che producono contanti e che sono buoni (come i contanti) e probabilmente meglio dei contanti. I contanti finiscono, gli asset che producono contanti no».

Non fa una piega. La realtà è che i soldi non ci sono, il settore auto è saturo e dunque si corre ai ripari con le mega-fusioni per ristrutturare il comparto, ridisegnare gli equilibri sul mercato e puntare conseguentemente sull’innovazione.

Qui sta il vero nodo: la forza lavoro subirà un drastico ridimensionamento e rischia di generare alti contrasti sociali. Che ovviamente nessuno vuole dentro i propri confini. Se il cancelliere Angela Merkel a Colonia ha assicurato che non chiuderà nessun impianto tedesco, a Termini Imerese e Pomigliano si agitano nonostante il ministro dello Sviluppo economico, Claudio Scajola, abbia messo le mani avanti sull’operatività degli stabilimenti made in Italy.

Insomma, qui i conti non tornano. Ma statene certi: siamo solo all’antipasto di uno storico passaggio del capitalismo italiano in cui presto si tornerà a parlare di Fiat e dello spin off dell’Auto.