Sir Victor Blank rassegnerà le dimissioni da numero uno di Lloyds Banking Group a causa delle sempre maggiori pressioni degli azionisti delusi dalla sua fallimentare gestione e dall’altrettanto fallimentare acquisizione di Hbos costata al gruppo bancario svalutazioni da incubo.
Succede in Gran Bretagna, dove nonostante tutti i difetti del vituperato liberismo vige ancora la regola del “chi sbaglia paga”. Non è così in Italia, visto che dai siti Internet e dalla stampa non abbiamo avuto notizia riguardo scossoni all’interno di Intesa San Paolo o Unicredit dopo che i risultati trimestrali hanno presentato notevoli flessioni del risultato netto rispetto allo stesso trimestre dello scorso anno, rispettivamente del 38% e del 58%. E glissiamo sulla questione Passera-Catricalà per carità di patria. Poco male, se il Gattopardo lo ha scritto Tomasi di Lampedusa e non William Shakespeare qualche motivo ci sarà.
In compenso dai mercati arrivano notizie che dovrebbero farci sorridere. O, che almeno, fanno sorridere gli ottimisti a oltranza (noi gufi ci prendiamo solo gli insulti, salvo non avere più notizie dei nostri critici quando le previsioni si avverano). L’indice Vix, quello che misura la volatilità basandosi sulle aspettative delle opzioni del listino S&P 500, è sceso sotto la soglia psicologica di quota 30 dopo aver toccato, nel periodo successivo al crollo di Lehman Brothers, quota 75: insomma, la paura sta finendo, i mercati si sono calmati, c’è ottimismo e si può tonare a investire. Almeno per gli indicatori.
Peccato che poi nelle stesse ore si assista a un aumento immotivato del prezzo del petrolio, qualcosa che ignora completamente i fondamentali e fa pensare che la musica sui mercati non sia cambiata: si picchia duro sulla speculazione pura perché è l’unico modo di fare qualche dollaro, squeeze e corners sono all’ordine del giorno (ovvero l’acquisto di un numero di futures superiore al numero di barili consegnabili al fine di guadagnare attraverso il pagamento delle penali per inadempienza, roba da usurai over-the-counter) e quando qualcuno fa partire la giostra in molti sono pronti a salirci e a scendere in fretta in base al detto del “agganciali e spennali” (qualcuno, che si crede più furbo degli altri, resta in giostra un minuto di più e la vede trasformarsi magicamente in un calcinculo). Insomma, siamo all’irrazionalità elevata a regola.
D’altronde se si guardano gli andamenti delle Borse precedenti al giugno del 1931, quando la grande Crisi squassò l’Europa, sembravano segnalare l’arrivo del Bengodi. Sta arrivando invece qualcos’altro, soprattutto per Barclays, gigante bancario britannico che pensava di essere più furba dei suoi concorrenti e invece ora rischia di andare a picco.
È la vendetta, la prima ma non l’ultima, di Lehman Brothers. Quando la banca d’affari newyorchese crollò, infatti, Barclays si lanciò come un avvoltoio a comprare a prezzo di saldo – 1,75 miliardi di dollari – le divisioni più redditizie, ovvero l’investment banking e il brokeraggio: un affarone, visto che a dicembre dello scorso anno – ovvero tre mesi dopo l’acquisto – quelle divisioni garantirono ai bilanci di Barclays un profitto netto di 2,26 miliardi di dollari. Non male per 90 giorni di lavoro, se così si può dire.
Peccato che ora l’ex banca d’affari abbia ingaggiato uno degli studi legali più potenti di New York, Weil Gotshal&Manges e abbia intentato una causa miliardaria di fronte al tribunale fallimentare della Grande Mela poiché all’epoca le attività di Lehman Brothers furono «pesantemente sottovalutate al momento dell’acquisto, esagerando le liabilities presenti nei bilanci rispetto al grado di profittabilità poi dimostrato dai risultati a breve acquisiti».
Se Barclays dovesse perdere quella causa, destinata a fare giurisprudenza, sarebbe tecnicamente fallita: nonostante abbia passato il recente stress test, infatti, le sue potenziali riserve si basano sulla spendibilità sul mercato proprio di attività molto lucrative che fanno gola ai concorrenti. Il grado di leverage reale del gigante è spaventoso – pari a quello dell’altrettanto disastrata Deutsche Bank – e il governo britannico, dopo aver speso il 20% del Pil per cercare di salvare il sistema bancario, non può esporsi di più.
Visto, inoltre, che l’Unione Europea sta chiedendo conto a Lloyds Tsb dei prestiti ottenuti proprio dalle Finanze di Sua Maestà e sulla capacità di ripagarli onde evitare costose procedure di infrazione e soprattutto la vendita obbligata dei suoi assets più fruttuosi: c’è poco da stare allegri sui mercati, quindi. Soprattutto perché ieri pomeriggio, a seguito di queste voci e del warning dato dalla stessa Lloyds agli investitori riguardo il quasi certo, esorbitante aumento dei costi per assicurarsi nello schema di difesa dai titoli tossici, la banca inglese perdeva il 30% in Borsa. Solo due settimane fa guadagnava mediamente il 5% tutti i giorni e gli ottimisti gridavano al miracolo: poi, a trimestrali presentate e senza trucchi contabili, la verità viene a galla.
Il fatto è che almeno in Gran Bretagna le grane sono pubblicate sui giornali e rese note al pubblico mentre la montagna di titoli spazzatura che sta per far saltare il coperchio delle banche tedesche, dando vita al 1931 sistemico in Europa continentale, continuano a essere il segreto di Pulcinella: se la Bce, ogni tanto, dicesse qualcosa sarebbe confortante.
Da Francoforte invece silenzio, nonostante sia di ieri la notizia che la Bank of England è pronta a stampare e mettere in circolazione liquidità ulteriore per 75 miliardi di sterline oltre alle 50 già stanziate per arginare la terza crisi bancaria in arrivo a giugno: insomma, si ragiona prima rinforzando gli argini ma anche per il potenziale kick-start, ovvero la ripartenza dopo quella che si pensa l’ultima ondata di perdite. A Francoforte invece, quando non si dorme il sonno degli incapaci, si fanno danni: difficile scegliere tra le due opzioni. Godiamoci quindi il crollo dell’indice Vix e l’aumento immotivato del prezzo del petrolio dell’85% dai minimi di febbraio a 32 dollari al barile e salutiamo questi dati come indizi di ripresa dei mercati e dell’attività produttiva e industriale: poi, con tutta la calma del mondo, ci sveglieremo tra un mesetto in pieno 1931 (il crollo del Pil giapponese comunicato ieri, -14%, parla questa lingua e quello tedesco non ne offre una molto dissimile, senza parlare della Cina).
Sarà durissima per tutti ma molto più dura per chi pensava di essere in un villaggio vacanze e si ritrova su un isola di cannibali con la pentola già sul fuoco.