Duro lavoro per presidenti, premier e ministri. I dati ufficiali sulla crisi economica (la ricchezza mondiale diminuirà dell’1,3% nel 2009 secondo il Fmi) richiedono nuove regole e si moltiplicano i vertici dei G a otto e a venti, delle istituzioni di Bretton Woods in cerca di una nuova governance, del Financial Stability prima Forum e ora strutturato Board, nonché dell’Ue a 27 e frammentata in sottogruppi di natura istituzionale (i 16 Paesi dell’area euro) e politica. A guidare questi vertici, i soliti Paesi adesso governati da chi ha bisogno di accreditarsi con i fatti dopo le promesse (Obama), chi è in cerca di nuovo consenso (Sarkozy), chi non lo ha mai avuto (Brown) e chi sta per fronteggiare elezioni con tutta l’ambiguità della Große Koalition.
Nel frattempo la crisi finanziaria si è estesa all’economia reale. A fronte di un problema comune dovuto all’integrazione dei mercati finanziari, gli effetti – in termini di Pil, occupazione, finanza pubblica – saranno diversi da Paese a Paese; anche all’interno dell’Ue, dove un mercato unico gestito da politiche comuni convive con politiche economiche ancora frammentate, soprattutto in materia di welfare. Ambito estremamente delicato per i governi, soprattutto quando le imprese domestiche particolarmente colpite fanno lobby comune con i sindacati nel reclamare aiuti di Stato (in linea di principio, vietati). Per questo motivo i Paesi hanno risposto immediatamente nel momento in cui rappresentanti di capitale e lavoro hanno avuto la propria voce unisona ascoltata.
Un’assenza di coordinamento ex-ante, necessaria per l’urgenza, ma potenzialmente nociva per un’eterogeneità distorsiva del mercato interno. Basta ricordare la garanzia illimitata offerta dal governo irlandese alle sei banche nazionali che ha obbligato la Commissaria Neelie Kroes ad intervenire per ridurre gli effetti discriminatori. Favorendo le istituzioni di nazionalità irlandese, infatti, si sarebbe creato un danno per le omologhe con sportelli in Irlanda, in particolare quelle britanniche non garantite dal rispettivo governo.
L’Ue sa benissimo che non è facile conciliare la necessità di misure eccezionali con il mantenimento di una concorrenza effettiva. Nel dubbio, in occasione dell’ultimo Consiglio europeo (19-20 marzo 2009), i 27 capi di Stato e di governo hanno dichiarato che “le misure di garanzia e di pronta ricapitalizzazione, adottate dagli Stati membri nel quadro di principi comuni, hanno evitato il crollo finanziario. Possono tuttavia essere necessarie misure ulteriori per ripristinare il funzionamento dei mercati del credito ed agevolare il flusso dei prestiti verso l’economia reale (…). Il Consiglio europeo esorta gli Stati membri ad agire in maniera coordinata (…) e nel pieno rispetto delle regole di concorrenza”.
Per mettere in pratica misure nel rispetto delle urgenze e dei vincoli appena citati, la Commissione europea si era già attivata dall’ottobre scorso offrendo un quadro di valutazione agli Stati membri qualora ritenessero opportuno applicare strumenti supplementari per contrastare gli effetti della stretta creditizia sull’economia reale.
Strumenti supplementari che in tempi normali sarebbero vietati perché aiuti di Stato possono adesso essere concessi se destinati “a porre rimedio a un grave turbamento dell’economia di uno Stato membro” (deroga al divieto ai sensi dell’art. 87, paragrafo 3, lettera b del Trattato CE). Attenzione alle parole “adesso” e “se”. Con la prima si indica una circostanza eccezionale e quindi un periodo di tempo limitato (fino al 2010) durante il quale può essere richiesto l’intervento dei governi per sbloccare i prestiti bancari alle imprese e garantire così la continuità del loro accesso ai finanziamenti e quindi per stimolare rapidamente la domanda e far rinascere la fiducia tra i cittadini.
Con il “se”, la Commissione, in quanto istituzione super partes, valuta i regimi di sostegno predisposti da ciascun governo attingendo da un vasto set di misure che comprendono interventi sul capitale di rischio, debiti a tasso d’interesse agevolato e concessione di garanzie.
All’interno delle opzioni offerte dalla Commissione nascono i cosiddetti “Tremonti bond” mirati alle banche che prevedono due modalità (entrambe approvate dalla Commissione il 23 dicembre e il 20 febbraio scorsi) così necessari (il valore complessivo del debito della clientela entrata in sofferenza è aumentato di ben il 70% rispetto all’anno scorso) che hanno accolto il plauso del Governatore della Banca d’Italia, notoriamente restio a concedere troppi onori a chi oggi siede alla scrivania di Quintino Sella.
Compito (arduo) della Commissione è quindi quello di verificare che gli aiuti concessi non superino quanto strettamente indispensabile per raggiungere lo scopo legittimo. Ogni cifra superiore potrebbe essere fonte di distorsione della concorrenza favorendo soggetti a danno di altri (così come nel caso del governo irlandese per le sue sei banche, per esempio la ricapitalizzazione della ING da parte del governo olandese potrebbe permettere al “conto arancio” di offrire rendimenti più elevati rispetto a quelli offerti dalle banche italiane non ricapitalizzate).
Commissione chiamata quindi a valutare ex-ante e monitorare ex-post gli interventi dei singoli governi nonché le misure specifiche per alcune grandi banche (tra queste Northern Rock, ING, WestLB, Fortis e Dexia) e che nel frattempo adotta linee-guida specifiche in materia di ricapitalizzazione (5 dicembre 2008) e di attività deteriorate, meglio note come “tossiche” (25 febbraio 2009).
Anche se “valutare l’impatto sulla concorrenza” può suonare come un’attività esoterica, ricordiamoci che ad oggi la crisi ha richiesto interventi per oltre 3.000 miliardi di euro. Una cifra pari a quasi il doppio del Pil italiano previsto per il 2009 pagata, in ultima istanza, dai contribuenti europei sull’utilizzo della quale vigila, appunto, la Commissione europea lontano dai flash dei vertici internazionali.