L’Italia è un Paese liberalizzato a metà. Per la precisione, al 51%. È quanto emerge dall’Indice delle liberalizzazioni 2009, curato dall’Istituto Bruno Leoni e presentato ieri a Milano. Il nostro paese appare quindi a metà del guado e bisognerebbe fare di più, come spiega il direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni, Alberto Mingardi, proprio perché in tempi di crisi, «quando le cose vanno male, l’impulso dovrebbe essere quello di cambiare il più possibile. In Italia, cambiare è liberalizzare».



Qual è il quadro generale che emerge dall’Indice delle liberalizzazioni 2009?

Il quadro che emerge è quello di un paese fermo. Un Paese che aveva iniziato uno sforzo notevole per aprire alla concorrenza la sua economia ma che si è fermato a metà. È sconfortante il fatto che, nel complesso, il giudizio complessivo sia lo stesso da tre anni, cioè da quando lavoriamo a questo Indice.



In quale ambito l’Italia è più liberalizzata e in quale meno? Da cosa dipende?

Il settore economico più liberalizzato è il mercato elettrico, che abbiamo valutato al 77% rispetto al benchmark preso a riferimento: il mercato britannico. Emergono qui i risultati di un percorso iniziato fin dalla privatizzazione dell’Enel di cui fu fatto spezzatino, anziché cederla in blocco trasferendo a un privato la rendita monopolistica pubblica. Oltre a questo, è stata importante la decisione di operare una separazione proprietaria tra la rete di trasmissione nazionale e le compagnie attive nei segmenti liberi del mercato, e si cominciano a vedere gli effetti della piena apertura del mercato, entrata in vigore il 1° luglio 2007. Il settore meno liberalizzato è quello delle infrastrutture autostradali (29%, il riferimento è la Spagna), che abbiamo cominciato ad esaminare quest’anno: in questo caso, pesano negativamente sia la confusione amministrativa e regolatoria, sia i continui interventi governativi sui termini delle concessioni, che distruggono ogni forma di certezza o stabilità del quadro normativo.



Quali differenze emergono rispetto all’anno scorso?

I tre settori che hanno registrato i cambiamenti più significativi – tutti verso un miglioramento – sono i servizi idrici, il fisco e il mercato del lavoro. Per quel che riguarda i servizi idrici, l’introduzione dell’obbligo di gara nell’affidamento del servizio (seppure con molte eccezioni) e in generale la creazione di un contesto più trasparente aiuta a creare condizioni competitive migliori, anche se il giudizio resta pesantemente negativo (32% del Regno Unito). Sul mercato del lavoro, bisogna ringraziare le prime iniziative del ministro Maurizio Sacconi, che hanno riparato ai passi indietro del governo precedente: dopo la pesante penalizzazione dell’anno scorso, il grado di liberalizzazione (rispetto alla Gran Bretagna) è pari al 55%. Infine, il fisco risulta liberalizzato al 52%, principalmente per il peggioramento del paese di riferimento (UK anche in questo caso), ma anche per i miglioramenti nella pressione fiscale per le imprese e per il numero di ore necessarie alla compliance con le norme tributarie

Vedendo le liberalizzazioni rispetto al nostro sistema paese, come si può pensare di promuovere lo sviluppo del sud? Liberalizzare anche in questo caso?

Rispetto al Sud, proprio il fisco può giocare un ruolo importante. Noi abbiamo definito il concetto di liberalizzazione in questo campo come riduzione della distorsività dell’intervento fiscale e, in generale, come riduzione del grado di intermediazione pubblica dell’economia. Questo è il vero male di cui soffre il Sud. Una proposta classica dell’IBL in questo senso è appunto quella di scambiare l’abolizione di tutti i sussidi con l’abbattimento della pressione fiscale, abolendo l’IRAP per le imprese meridionali: solo così si potrebbe innescare un meccanismo competitivo virtuoso, in luogo dell’attuale corsa alla mammella pubblica.

Il problema dell’Italia è quello di avere un debito pubblico troppo elevato. Prima delle liberalizzazioni non dovrebbe venire un drastico taglio della spesa pubblica?

Le liberalizzazioni non richiedono, in generale, alcun impegno finanziario per le casse dello Stato. Anzi, nel medio periodo potrebbero avere un effetto positivo sul gettito fiscale, perché un’economia più dinamica produce più Pil, e quindi, maggior gettito. Dopo di che, è chiaro che in un paese le cui finanze pubbliche sono immobilizzate dal debito liberalizzare è l’unica leva anti-ciclica disponibile, in un momento di crisi come quello attuale.

 

Nel precedente esecutivo tentativi di liberalizzazione erano stati fatti con le “lenzuolate” di Bersani. L’attuale governo come si è invece mosso? È da giudicare positivamente il suo lavoro?

L’attuale governo si trova nella delicata situazione di dover fronteggiare la crisi, con molta pressione da parte di gruppi d’interessi i più diversi, per allargare i cordoni della borsa. Ha scelto la strada della cautela, nell’ambito di una sorta di “patto sociale” che scontenta quei ceti che pure al centrodestra chiedono da sempre liberalizzazione nel senso di semplificazione normativa: a cominciare dalle piccole e medie imprese.

Dobbiamo ancora vedere, dunque, le liberalizzazioni di Berlusconi. Il centrodestra ha scelto di non impegnarsi in alcuni dei “quartieri di guerra” presidiati dalla sinistra ai tempi di Bersani (l’agenda Giavazzi…). È chiaro che fare alcune delle cose che dovrebbe e potrebbe fare – rispetto alla riforma dello Stato o alla semplificazione normativa – sortirebbe grandi effetti, per la libertà economica. Ma per ora, con l’eccezione di Brunetta, il governo ha scelto il crisis management e non le riforme. Giudizio sospeso, dunque. 

 

La crisi economica sembra aver risvegliato protezionismo e intervento dello Stato. Questo ha influenzato il grado di liberalizzazione del nostro Paese?

Nell’indice 2009 non abbiamo rilevato alcuna conseguenza protezionistica, perché i dati che abbiamo utilizzato si riferiscono all’anno precedente. È probabile che l’anno prossimo percepiremo qualche grado di arretramento a causa di alcune manovre: ma sicuramente questo “cambiamento di clima” non giova… Il che da alcuni punti di vista è paradossale: quando le cose vanno male, l’impulso dovrebbe essere quello di cambiare il più possibile. In Italia, cambiare è liberalizzare. 

 

Potrebbe indicarci una “ricetta” per favorire le liberalizzazioni?

Non c’è una ricetta unica. In alcuni casi, nel nostro paese abbiamo liberalizzato grazie al vincolo esterno, come nel caso dei trasporti aerei (liberalizzati al 68% rispetto all’Irlanda). In altri casi, grazie a una serie di condizioni favorevoli siamo andati oltre e abbiamo battuto l’Europa, come con l’elettricità. Il punto è che, per avere vere liberalizzazioni, serve una cultura politica che comprenda il mercato e lo abbia caro non solo come un fatto ma come un valore. In Italia, questo manca e continua a mancare. Protagonista della stagione più (relativamente) liberalizzatrice è stata la sinistra che ha fatto “politiche di destra”. La destra, che nei Paesi avanzati si propone quasi sempre come la parte più attenta alle ragioni dell’impresa, da noi non solo resta vittima di un sostanziale analfabetismo economico – ma se ne fa persino un vanto!

Senza una diffusa e vibrante cultura del mercato, le liberalizzazioni resteranno nel migliore dei casi episodi sporadici. È ancora come nel ’94: l’Italia ha un disperato bisogno di una cultura della libertà.