Il Rapporto Annuale presentato ieri dall’Istat è un ritratto nitido e composito dell’Italia al tempo della crisi, un’Italia che fatica e arranca, stretta nella morsa della recessione. Con un unico, inevitabile neo: quello di scattare una fotografia di un oggetto in rapidissimo movimento, imprimendo sulla pellicola un’immagine che potrebbe già essere superata. È la sorte della statistica sociale in tempi di cambiamento magmatico e imprevedibile come quello che stiamo vivendo.



Probabilmente la realtà è già altrove, dunque. E probabilmente stanno già succedendo delle cose nuove, forse in controtendenza con l’immagine a tinte nerissime che l’Istat ha stampato. Troppo presto per parlare di ripresa, ma non per dire che il peggio è passato.

Il Rapporto Istat ci parla di quel peggio, che forse è ancora tra noi ma forse no. È un’Italia in cui la precarietà mostra il suo lato B: ottima cosa in tempo di economia di sviluppo, brutto affare (per chi la vive) nei periodi recessivi. Nel 2008 c’erano 100mila lavoratori autonomi (ovvero partite Iva) con un solo committente e con precisi vincoli di orario, ovvero dei parasubordinati senza più le tutele dei cocopro. E c’erano anche un milione di famiglie con redditi provenienti esclusivamente da occupazioni a termine e/o collaborazioni. C’erano poi 186mila disoccupati in più rispetto all’anno precedente, la prima seria crescita dopo dieci anni di ribasso costante; causa della perdita di lavoro è innanzitutto la scadenza di un contratto a termine, non più rinnovato. E alla fine del 2008 Istat stima che siano scaduti i contratti di oltre 350mila lavoratori a tempo determinato e collaboratori: una dead-line le cui conseguenze sono ancora tutte da comprendere. Il nuovo disoccupato era maschio, tra i 34 e i 54 anni, proveniente dall’industria del centro-nord e con un livello di istruzione non superiore alla scuola secondaria.



Ma fuori e oltre i confini della precarietà, c’è poi la vulnerabilità, concetto, questo, un po’ più generale, relativo, soggettivo e forse ambiguo, rispetto al tema della precarietà. Ma il Rapporto vi insiste molto, pur potendo contare su dati vecchi del 2007, anno in cui il 22% delle famiglie dichiarava forme più o meno gravi di disagio economico, come l’impossibilità a risparmiare o addirittura a pagare bollette, cibo, vestiti, spese mediche e trasporti. Una fotografia ancora più ingiallita, cosa che di solito passa inosservata, ma che quest’anno non può che balzare all’occhio, perché nel frattempo non solo è arrivata la crisi occupazionale di cui si è detto, ma il costo della vita si è drasticamente ridimensionato (inflazione, benzina, mutui in picchiata) e dunque oggi, per molti anche se non per tutti, si sta paradossalmente meglio di prima.



Insomma, se si vuol capire a che punto è la notte, il Rapporto Istat aiuta, ma non troppo. Forse qualcosa in più ci dicono i dati Nielsen sull’andamento dei consumi nella grande distribuzione, che per la prima volta a marzo ha segnato un valore negativo (-3,1%) rispetto allo stesso mese dell’anno precedente, mentre i discount a basso prezzo continuano a crescere. Piccoli segnali di una crisi che è ancora tra noi.