«La crisi ha le sue radici in distorsioni nel funzionamento dei mercati, in carenze di regolazione e supervisione e nei comportamenti degli intermediari nei primi centri finanziari del mondo». Apprezzabile l’onestà intellettuale di Draghi, dal 2001 al 2005 altissimo dirigente della Goldman Sachs nella City e poi massimo regolatore bancario in Bankitalia, in Bce e nel Financial Stability Forum. Certo resta l’interrogativo: chi ha “sbagliato” (a prevedere, a operare, a vigilare) può restare a gestire la ricostruzione?



«L’attribuzione di compiti di vigilanza finalizzata alla stabilità sistemica a un consiglio europeo é utile, se questo dispone di una effettiva capacità di intervento e opera in stretto raccordo con le autorità di vigilanza nazionali. Gli standard di vigilanza comuni dovrebbero essere, almeno in alcune aree, vincolanti e direttamente applicabili a livello nazionale». Il progetto di vigilanza sovrannazionale varato negli ultimi giorni dalla Commissione Ue – con la messa in cantiere di strutture integrate di supervisione di fatto appoggiate alla Bce per le grandi banche sistemiche – lascia sostanzialmente freddo il Governatore, tradizionalmente vicino alla finanza anglosassone e quindi oggettivamente prossimo alle resistenze della Gran Bretagna (della City) al progetto franco-tedesco maturato durante lo “scontro” con gli Usa nell’ultimo G20.



«Il Fondo monetario internazionale assume ora un ruolo cruciale: le sue funzioni: sono state più che raddoppiate ed é stata potenziata la sua capacità di intervento. Insieme con il Financial stability board é stata affidata l’analisi e la segnalazione preventiva dei rischi per la stabilità del sistema finanziario globale». Draghi è ovviamente entusiasta del suo “Finacial stability board”, partorito dal Fmi: il cuore del “nuovo ordine finanziario internazionale” non può che partire da lì. Draghi conferma un “euroscetticismo globalista” sostanzialmente analogo anche se strategicamente opposto a quello “nazionalista” del suo predecessore Antonio Fazio. In ogni caso è una scelta di campo apprezzabile nella sua franchezza: quasi un’autocandidatura alla direzione generale del Fmi o alla guida di un Fsb definitivamente trasformato in agenzia di supervisione unica sulle due sponde dell’Atlantico.



«Le banche italiane hanno subito un impatto meno traumatico rispetto a quelle di altri paesi dalla crisi economico-finanziaria in corso e, sottoposte a stress test, hanno dimostrato di essere in grado di poter resistere anche a scenari più sfavorevoli, grazie a un modello di intermediazione fondamentalmente sano, dove l’esposizione ai prodotti della finanza strutturata è contenuta». Ma lo si deve anche a «un quadro regolamentare e a una vigilanza particolarmente prudenti». È un complimento a denti stretti, ma c’è: in parte anche alla Banca d’Italia stessa, che ha favorito nel 2006 le due grandi fusioni Intesa Sanpaolo e UniCredit. Però il complimento è generale, esclude forse, in via indiretta, solo il Banco Popolare che attraverso Italease, si è fatta prendere troppo la mano dai derivati; ma certamente è rivolto anche a banche tradizionalmente guardate in cagnesco dai banchieri centrali mercatisti puri, come ad esempio la Popolare di Milano. O lo stesso Montepaschi, controllato in via assoluta da una Fondazione comunale.

«Nella fase attuale occorre limitare la distribuzione degli utili». Molte banche lo hanno fatto. Il sacrificio richiesto agli azionisti è compensato dalla maggiore solidità del loro investimento. Per le banche sono disponibili strumenti quali i Tremonti Bond, «ma l’intervento dello stato è temporaneo e l’azionariato privato dovrà sostituire i fondi pubblici non appena le condizioni di mercato lo consentiranno». Altro riconoscimento realistico, che pone fine a un semestre di confronto sordo con il ministro dell’Economia Giulio Tremonti: lo Stato può entrare nelle banche, ma non deve disturbare e deve lasciar posto, al più presto, a nuovi investitori di mercato. È per avvicinare questi, che la Bankitalia, pochi giorni fa, ha allentato dal 5% al 10% il tetto di possesso libero di quote in banca. Ma chi saranno i nuovi padroni delle banche? Tra l’altro ieri Draghi ha confermato la sua apertura interessata a un nuovo assetto proprietario per la stessa Banca d’Italia. Che però, par di capire, non dovrà essere ripubblicizzata.

«Il sistema bancario deve affinare la capacità di riconoscere il merito del credito nelle presenti, eccezionali circostanze per venire incontro alla richiesta di finanziamento da parte delle aziende, nel momenti in cui il deterioramento dell’economia tende a frenare i prestiti bancari». «Non si può chiedere alle banche di allentare la prudenza nell’erogare il credito: non è nell’ interesse della nostra economia un sistema bancario che metta a rischio l’integrità dei bilanci e la fiducia di coloro che gli affidano i propri risparmi». Il credit crunch c’è riconosce Draghi, che però non è d’accordo sui diktat ripetuti di Tremonti al sistema bancario perché aprano i rubinetti: a maggior ragione dopo l’erogazione dei Tremonti-bond “salvacrediti”. Il rischio-sofferenze resta elevato e la Vigilanza non ha torto. Resta da capire come si comporterà nel caso in cui – solo per fare esempi concreti – robuste iniezioni di credito o addirittura di capitale verranno richieste da aziende come Telecom o Fiat.

E «affinare i sistemi di valutazione del merito di credito» significa allentare Basilea 2 o applicarla fino in fondo?