Gli strumenti anticrisi ci sono ma le banche non vi ricorrono, ha rilevato il ministro Tremonti. Perché i 10 miliardi di euro dei Tremonti bond non servono a sistemare i bilanci delle banche, ma a far arrivare il credito alle imprese. «I Tremonti bond sono un ottimo strumento – conferma l’economista Alberto Quadrio Curzio – ma le banche sono prudenti perché i soldi dovranno pur rimborsarli e non sarà cosa facile». Le trimestrali poi risentiranno senz’altro degli effetti della crisi, ma nonostante tutto, dice Quadrio Curzio, possiamo essere ottimisti. Sempre tenendo gli occhi bene aperti.
Professore, di fronte alla crisi il governo dice di aver fatto la sua parte. Lo stesso Tremonti ha rilevato però la propensione delle banche ad aumentare gli impieghi nel settore finanziario anziché verso le imprese. Che ne pensa?
I Tremonti bond sono uno strumento molto ben congegnato. Essendo sottoscrizioni di obbligazioni, che non danno ovviamente diritti di voto, evitano interferenze dello Stato nella governance delle banche e questo è un fatto molto positivo, a differenza di quanto è avvenuto in altri paesi che si sono trovati in condizioni diverse e più gravi delle nostre. Sulla base di quelle obbligazioni sottoscritte, le banche possono poi moltiplicare il credito concesso, a seconda del moltiplicatore che esse scelgono.
Perché allora le banche sono così caute nel far ricorso ai Tremonti bond?
Ci sono due ragioni. Le banche sanno che dovranno a un certo punto rimborsarli e più il tempo del rimborso si allunga più l’onere di tasso cresce. Perciò stanno riflettendo su quanto tempo sarà loro necessario e come reperire le risorse finanziarie con le quali rimborsare i bond. Alcune banche per esempio dovranno far ricorso anche ad aumenti di capitale. La seconda ragione è che molte banche, o per ragioni di tassi praticati o per un calo consistente di attività economica, non hanno una domanda di credito così pressante.
Dipende anche dalla singola banca?
Certamente; non si possono considerare in modo uniforme tutti i soggetti creditizi. Non tutte le banche si stanno comportando allo stesso modo. C’è chi ha molto selezionato tra i clienti, scartando quelli ritenuti scarsamente solidi, e invece chi ha continuato a seguire la propria clientela – anche se è chiaro che in queste condizioni sono tante le imprese che risultano indebolite.
Perché non sottoponiamo anche noi le nostre banche agli stress test, come si è fatto negli Usa?
È un’ipotesi. Poiché però ho la convinzione che le banche italiane siano solide, non credo che dagli stress test emergerebbe che le banche hanno affidamenti insolventi in misura tale da comprometterne la stabilità. Gli stress test non credo aumenterebbero la conoscenza che la Banca d’Italia, che ha svolto e svolge un’azione di vigilanza cruciale, ha maturato del nostro sistema bancario.
Non vede quindi rischi in vista delle trimestrali di giugno, insomma le nostre banche sono a posto?
Saranno certamente molto ridimensionati i risultati perché risentiranno degli effetti della crisi, ma non vedo pericoli significativi all’orizzonte. Se poi la crisi economica prosegue e le nostre imprese, che sono molto forti nell’export, continueranno a essere penalizzate da una dinamica del commercio internazionale che ha subito un rallentamento spaventoso, allora la situazione si potrebbe complicare. Mi auguro però che nella seconda parte dell’anno, malgrado l’uscita dalla crisi sarà lenta, avremo segni più tangibili di ripresa.
Quali sono, a suo modo di vedere, le vere sfide che attendono il sistema bancario italiano?
Credo che, come tutte le imprese, debba guadagnare in efficienza e contenere i costi. Sono tuttavia convinto che lo stato del nostro sistema bancario, dal punto di vista strutturale, sia buono, perché abbiamo due grandi banche capaci di operare su scala europea, abbiamo un tessuto importante di banche popolari e di banche di credito cooperativo molto diffuse sul territorio. Tutti questi operatori hanno un fattore di solidità formidabile e cioè il risparmio, che è il vero carburante del sistema bancario. Suggerirei alle nostre banche di avere sempre la dovuta attenzione nel gestire la clientela, perché è la clientela che porta risparmio, diversamente da altri paesi dove essa non porta risparmi ma indebitamento. Naturalmente se le nostre banche non avessero un afflusso così consistente di risparmio, questa valutazione sarebbe da rivedere.
La crisi si è spostata dai mercati ai bilanci pubblici degli stati, che hanno pompato denaro pubblico e hanno accresciuto il loro ruolo. È un problema che riguarda anche noi?
Anche il nostro quoziente di debito pubblico salirà, ma non tanto per la spesa bensì per un consistente caduta del “denominatore”, cioè del nostro Pil. Fin tanto che Tremonti amministra il nostro debito come ha fatto fino ad ora, senza cioè mollare le redini della spesa, non mi preoccupa. Ha poco senso citare l’esempio della Germania, perché prima della crisi la Germania aveva un debito pubblico intorno al 65% del Pil e nel 2010 si ritroverà con almeno 15 punti percentuali in più mentre noi cresceremo di meno, intorno ai 10 punti, ma partendo da una base di 105 avremo una situazione più seria. Ben più grave sarà il peggioramento della Gran Bretagna che tuttavia partiva anch’essa da livelli del debito sul Pil bassi, vicini al 45%
Vede rischi per i nostri titoli di debito?
Non ne vedo anche perché lo spread Btp/Bund che ha raggiunto nel mese di gennaio 170 punti base, è ripiegato – sia pure con oscillazioni – sotto i 100 punti base. Quindi il mercato ha notevolmente ridotto il premio di rischio sui nostri titoli di debito pubblico rispetto alla fase acuta della crisi. Naturalmente questo non vuol dire che il governo debba abbassare la guardia