Che cosa può offrire, Sergio Marchionne, alle controparti tedesche che incontra oggi per verificare se, avviato il deal tra Fiat e Chrysler, è possibile estendere l’accordo anche a Opel? Innanzitutto partiamo da un presupposto, purtroppo dolente quando si ha un punto di vista come quello di chi scrive. Marchionne non incontra la proprietà di Opel, cioè General Motors. Questa ha troppi guai a casa sua, e dopo l’avvio di Chrysler al Chapter 11 questa settimana ha concretamente di che temere un intervento ancor più energico da parte della Casa Bianca, visto che il piano da essa avanzato di diminuzione di un terzo dei suoi stabilimenti in Usa come dei suoi concessionari è stato giudicato insufficiente a giustificare nuovi aiuti pubblici. Marchionne incontra invece dei politici tedeschi, per la precisione il giovane ministro dell’Economia – in Germania conta poco, rispetto alle Finanze, ma lui è democristiano dunque parla per la Merkel – Karl-Theodor zu und von Guttenberg, e il ministro degli Esteri, il socialdemocratico Frank-Walter Steinmeier, vicepremier nonché candidato alle elezioni del prossimo ottobre “contro” la Merkel. Ecco, partiamo dal presupposto che, purtroppo, in Germania Opel è trattata a tutti gli effetti come fosse un’azienda di Stato, ed è stato il governo a stilare una lista di ben 14 condizioni in base alle quali procedere alla scelta dell’eventuale matrimonio salvifico.



È una premessa che configura un tavolo non ottimale, per Marchionne. Come si è avuta conferma nel caso Chrysler, il capoazienda Fiat si muove meglio nel rapporto fulmineo con manager internazionali, soprattutto anglosassoni, nonché coi sindacati. Tuttavia, l’esperienza svizzera in Alusuisse, Sgs e UBS lo rende sufficientemente esperto anche delle specificità della politica germanica. Le elezioni a ottobre, purtroppo, complicano ulteriormente la partita. Finora il governo tedesco è stato il più generoso in Europa quanto a incentivi all’auto – sino a 2500 euro lo sgravio “ordinario”, esteso anche all’acquisto delle berline più care e “divoracarburante” – ma si è guardato dalle dirette iniezioni di capitale pubblico, praticate invece con larghezza dalla Francia di Sarkozy, a condizione di non chiudere impianti nazionali.



Ora che il disastro di GM pone però Opel a rischio di sopravvivenza per il venir meno della sostenibilità della casa madre, tutti i segnali fanno pensare che il governo germanico consideri il caso Opel il vero banco di prova elettorale. Dunque, tra la Merkel e Steinmeier, qualunque cosa la prima pensi dell’ammaccato mercato post crisi finanziaria, la gara è tra chi difende di più impianti e occupati della Opel, ed evita in maggior grado che finisca nell’orbita di qualche altro grande gruppo concorrente. Con la giustificazione dei 3,3 miliardi di euro di garanzie sui debiti finanziari e sui prestiti all’acquisto rateale di Opel, il governo tedesco si è costituito di fatto come vero giudice della partita.



Finora, a Berlino si è pensato che l’auto tedesca, pur alle prese anch’essa con volumi in calo tra il 25 e il 35% a seconda delle case, potesse evitare veri disastri. Volkswagen è in definitiva il grande gruppo mondiale più in salute, e sotto la guida energica di Martin Winterkorn è quello che sinora meglio è riuscito a far sinergia di ben sette marchi diversi, dall’alto al basso di gamma e con volumi ingentissimi a cavallo tra Europa e America Latina. Daimler e Bmw portano – soprattutto la prima – colpi all’opera viva ma ben sopra la linea di galleggiamento, e in definitiva le loro berline di lusso continuano e continueranno a essere le preferite dei ricchi in Cina, Russia e Paesi Arabi. Per Opel, però, il discorso è diverso. Fuor dall’Europa, è praticamente assente. Il suo milione scarso di vetture pre-crisi dovrebbe rendere industrialmente impensabile un’ipotesi stand alone. Per il semplice fatto che gli investimenti necessari nella competizione globale per assicurarsi un mercato in forte torsione di domanda-tipo non sarebbero mai ammortizzati da volumi conseguibili.

Eppure, è proprio a un’ipotesi stand alone che i politici tedeschi stanno pensando. Il gruppo austro-canadese Magna, con i capitali russi della Gaz e della Sverbank, rilancia l’illusione di un campioncino nazionale da difendere. È questa illusione il vero drago che Marchionne oggi dovrà affrontare. Ha i numeri e gli argomenti per farlo, ma vedremo se i politici tedeschi gli daranno ascolto. Sinora le grandi case europee hanno attuato diversificazioni continentali per acquisizione di marchi quando gli acquirenti erano in grande spolvero (vedi la strategia di Vw con Audi, Seat, Skoda). Ma l’impostazione restava quella di cercare di acquisire quote crescenti di mercati nazionali con caratteristiche tanto distinte da essere “separate”. Oggi la strada suggerita da Fiat è quella di matrimoni che mettano insieme i gruppi europei ed americani che altrimenti sarebbero destinati, semplicemente, a scomparire non tanto e solo oggi sotto i colpi della crisi, ma sicuramente un domani quando la domanda riprenderà a tirare e ci vorranno buoni margini per autofinanziarsi gli investimenti.

Opel, oggettivamente, è in questa condizione. E agganciarsi a un convoglio che è già collegato agli aiuti di stato americani la agevolerebbe rispetto alle scelte che Obama e i suoi faranno su GM. Ma non c’è solo la politica tedesca, a diffidare. I sindacati germanici non sono la Uaw e la Caw di Chrysler, che negli italiani hanno visto un partner di salvezza, duro ma di cui fidarsi. Del capoazienda di Fiat si fidano assai meno, perché lo considerano troppo “tosto”, rispetto agli standard collusivi che sino a poco tempo fa hanno caratterizzato gli accordi aziendali nell’auto tedesca. Un Marchionne troppo “tedesco” rispetto agli standard germanici attuali? Lo sapremo presto.