La frenata c’è e si vede. Ed è anche brusca a giudicare dai segnali delle immatricolazioni di auto nel mese di aprile. In Italia ad esempio il calo è stato del 7,5% rispetto allo scorso anno: colpa della mancata disponibilità dei modelli che usufruivano degli ecoincentivi ma soprattutto di una ancora limitata fiducia a spendere.



In un contesto dove il settore automobilistico è decisamente saturo, l’unica via possibile è quella imboccata da tempo da Fiat ovvero allargare il parco delle alleanze internazionali per tenere botta alla crisi. Il Lingotto ha prima fatto tappa a Detroit per caricare a bordo la Chrysler e poi scorrazzare a Berlino mettendosi nel portabagagli anche il marchio Opel.



Il dosso più pericolo di quest’ultima acquisizione è rappresentato dai sindacati dello stabilimento automobilistico tedesco. I dubbi sono sui finanziamenti e sul fatto che il piano del Lingotto prevede tagli al personale per 10 mila persone in Europa. La forza della Fiat è che nelle sue trattative può contare su un amministratore delegato come Sergio Marchionne, probabilmente il miglior negoziatore possibile sul mercato.

Del resto già dal 2004 Marchionne aveva dimostrato le sue qualità facendosi pagare da Gm 1,5 miliardi di euro un’opzione in mano al Lingotto. Proprio da quella liquidità era partita la ripresa della Fiat, interrotta poi da una crisi globale che non fa sconti a nessuno. «Non vogliamo chiudere nemmeno una delle fabbriche in Germania – ha spiegato Marchionne in un intervista alla Bild –ma, naturalmente, dovremo ridurre il personale».



La partita non è semplice dal punto di vista finanziario ma è certamente drammatica da quello occupazionale. Un deal per certi versi paradossale se raffrontato ai nobili e liberali criteri mercatistici di appena un anno fa. La Germania si trova costretta a ricorrere a Fiat, a sua volta sostenuta sia dalle agevolazioni del governo italiano che dai miliardari finanziamenti americani varati su Chrysler. Ma a fare i sofisticati si va tutti fuori strada. Meglio la pragmatica. Intanto è bene salvare Opel. Ci sarà tempo per riscrivere le regole del mercato.

L’accordo con Fiat richiede un finanziamento ponte di 7 miliardi di euro, circa il doppio rispetto ai 3,3 miliardi chiesti dalla stessa Opel in aiuti di Stato. Denaro fresco necessario a Marchionne per costruire il secondo gruppo mondiale in termini di fatturato dopo Toyota. Fiat vuole avere accesso alle piattaforme su cui Opel realizza i modelli Astra e Insignia. Queste infatti consentono di realizzare auto piccole che soddisfano i criteri Usa, una cosa che Chrysler, focalizzata invece sui minivan, Suv e grandi pickup, non può offrire.

Insomma, si prepara nella cucina tedesca quello che non possono apparecchiare in Usa. Sullo sfondo c’è anche l’appetito della compagnia austro-canadese Magna, a sua volta interessata a Opel, ma che Marchionne vuol tenere (per ora) lontano dalla tavola. Del resto Marchionne ha valide argomentazioni da proporre nel menu in quanto Opel non potrà mai fare profitti con le sue dimensioni attuali e il governo tedesco difficilmente potrebbe voltare le spalle di fronte a un progetto credibile. L’unica alternativa resterebbe proprio Magna aiutata da capitali russi tutti da decifrare. Quasi un affronto per la severa e rigorosa Berlino che sembra aver scartato anche l’ipotesi dei fondi sovrani di Abu Dhabi e Singapore e tre gruppi di private equity.

Se il cielo è di Fiat sopra Berlino, la strategia di Marchionne non conosce confini tanto che il gruppo torinese ha già prenotato il prossimo viaggio: destinazione America del Sud. Nel mirino le attività di General Motors. Ultima nota riguarda la Borsa. L’accordo tra Fiat e Opel sembra piacere agli investitori a giudicare dai recenti rialzi del Lingotto. Un tempo sarebbe stato il primo parametro da osservare per giudicare l’operazione.