Anni fa li avremmo chiamati i paesi “più industrializzati”. Oggi invece sono il gruppo dei paesi che, dopo l’implosione del sistema finanziario, «stanno tappando i buchi privati con soldi pubblici», dice Marco Fortis, vicepresidente della Fondazione Edison. Ma l’Italia non è tra questi e gli ultimi dati della Commissione Ue sul rapporto deficit/Pil e sulla disoccupazione mettono il nostro paese nelle posizioni più virtuose.



Professore, alcuni dati di marzo riguardanti i nostri ordinativi dell’industria hanno diffuso un certo ottimismo. Poi però il Fmi e l’Ocse hanno diffuso dati peggiorativi sulla nostra economia: Pil 2009 a -4,4% e debito pubblico al 120% del Pil nel 2010. Come dobbiamo orientarci in questa ridda di cifre?

Ci sono molteplici indicatori di breve periodo e indicatori qualitativi – ricavati da interviste con operatori e consumatori, indicatori elaborati dall’Ocse sulla base di questi indici di confidenza, come l’indicatore di fiducia dei consumatori pubblicato dall’Isae – che mostrano effettivamente una situazione nella quale sembra profilarsi un arresto della caduta.



E questi dati vanno letti nell’ambito del contesto globalmente negativo dell’economia mondiale.

Esatto. Basta prestare attenzione al semplice fatto che gli Usa valgono da soli un quarto del Pil mondiale e se il loro mercato va in crisi, con consumi di beni durevoli in forte calo e cantieri ai minimi storici dai tempi del ’29, ebbene in queste condizioni pensare che il mondo potesse rimanere fuori della crisi Usa è stata una grande utopia. Dopo il crollo verticale delle produzioni industriali, dato dal fatto che tutti gli operatori delle filiere distributive e commerciali a livello mondiale hanno ridotto le scorte in maniera inconsueta, spaventati dal credit crunch, lo svuotamento simultaneo dei magazzini ha provocato contraccolpi formidabili nella produzione industriale e nel commercio.



A suo avviso dunque dove sta “andando” la crisi?

Gli indicatori portano a ritenere che la crisi possa aver raggiunto il suo apice. Quel che si tratta di capire è quali strascichi avrà la crisi su quel che rimane del 2009 e soprattutto sul 2010. Ma quando si guardano le cose più da vicino si vede come dati uguali possono legittimare più interpretazioni. Cominciamo per esempio dal 2009. L’Ocse prevede un calo del Pil italiano – in linea con le valutazioni fatte ieri dalla Commissione Ue – del 4,3%, il Fmi quindici giorni fa lo ha stimato del 4,4% esattamente come la Commissione, -4,4%. Sembra esserci una concordanza, poi se andiamo a vedere la spiegazione della caduta diventa tutto più difficile…

Perché?

L’Ocse attribuisce la maggior parte dell’influenza negativa alla caduta dei consumi privati, stimata in Italia del -3% nel 2009. Gli Usa, che pure attraversano una crisi su tutti i fonti, hanno consumi in calo ma del -2,4%. E in Gran Bretagna il calo consumi delle famiglie è del -2,2%. Ebbene, l’Ocse prevede che nei due paesi che hanno accusato più di tutti gli effetti della crisi, i consumi caleranno meno che in Italia! Al tempo stesso la commissione Ue dà un calo dei consumi privati in Italia nel 2009 solo dell’1,7%. Come è possibile un calo del Pil nelle previsioni Ocse, Fmi e Ue con ipotesi sui consumi così diverse? Ma perché la Commissione Ue prevede che il calo del Pil italiano sia più legato al calo dell’export e degli investimenti privati, che non ad una caduta dei consumi. Ma è legittimo qualche dubbio….

Lei quali conclusioni ne trae?

Direi così: smettiamo di tormentarci per altri sei mesi su quanto cadrà il Pil italiano… secondo me tra un po’ cominceremo a vedere i segni di un’inversione di tendenza e nel corso dell’anno i dati denoteranno un graduale miglioramento. Guardi, non voglio dare giudizi contro questi malcapitati “professionisti della previsione”, che sono costretti a dipingere un affresco per così dire a lume di candela. Preferisco basarmi su dati previsionali più facili, quelli riguardanti la disoccupazione per esempio.

Proprio la Commissione Ue stima per l’Italia una disoccupazione del 9,4% nel 2010. Quanto ci penalizzerà il costo e quindi il disavanzo derivante dal massiccio ricorso agli ammortizzatori sociali?

Una precisazione mi sembra doverosa. È vero, nel 2010 potremmo avere una disoccupazione del 9,4% cioè tre punti in più rispetto al 6,1% del 2007. Ma gli Stati Uniti vedranno un aumento di quasi 6 punti, dal 4,6% del 2007 al 10,2% del 2010. Idem o quasi per la Gran Bretagna. Cioè la nostra disoccupazione sarà la più bassa, dopo quella del Giappone, tra Usa, Regno Unito, Germania Francia e Spagna. Per quanto riguarda il nostro deficit di bilancio, anche se lo si può commentare come un aggravamento della situazione poiché il rapporto deficit/Pil del 2010 è dato a -4,8%, esso è quello che cresce di meno rispetto a quello degli altri paesi citati. Molti dei quali stanno tappando i buchi privati con soldi pubblici.

Le cifre diffuse non intaccano la bontà del nostro modello produttivo?

Non direi. Il nostro modello di sviluppo ha nell’economia delle famiglie e nell’economia delle imprese i suoi due grandi punti di forza indiscutibili. Certo è che nel nostro modello complessivo non ci sono solo imprese, famiglie, distretti e territori, ma anche la pubblica amministrazione, il divario nord-sud, lo spreco delle risorse e la burocrazia. Sono tante le cose da correggere. Ma se rimaniamo sul côté dell’economia reale, allora non possiamo certo dire che questo modello esca sconfitto; tutt’altro.

Come si stanno comportando le nostre imprese di fronte alla crisi?

Stanno reagendo bene, per esempio non ricorrono in maniera smodata agli ammortizzatori: nel primo trimestre del 2009 il monte ore di Cig autorizzata in provincia di Torino è stato di 3 milioni di ore superiore a quello dell’intero Nordest cioè di quattro regioni italiane. Che, a prevalenza di piccole e medie imprese, hanno fatto ricorso a 10 milioni di ore. Il che vuol dire che la Fiat si è tutelata ma non aveva alternative, ma anche che la nostra impresa ricorre alla Cig solo se costretta.

A proposito di Torino, professore?

Marchionne ha messo in campo una grande vision, supportato anche dal presidente Montezemolo, una scelta non facile ma coerente con le sue affermazioni di valutazione del mercato dell’auto. E tanto più lungimirante se pensiamo che sarà difficile in futuro fare acquisizioni a costi così bassi come ora. Una partita molto coraggiosa giocata su scala mondiale, che dobbiamo augurarci vada in porto nel migliore dei modi.

Cosa cambierà?

Cambierà tutto: il nuovo gruppo che preconizza Marchionne sarà fatalmente guidato da un management misto. È comprensibile che destino perplessità le condizioni finanziarie di Fiat, ma Marchionne ha un piano che prevede l’esternalizzazione dell’auto e anche la situazione finanziaria sarà diversa da quella attuale, facendo di Fiat quasi una public company. Dovesse nascere questo gruppo non totalmente italiano ma tecnologicamente innovativo, in cui Fiat ha una grossa parte di proprietà, verremmo a completare una sorta di “ribilanciamento” verso la grande impresa della struttura della nostra industria. Sarebbe il rilancio in grande di una vocazione industriale che abbiamo sempre avuto nella meccanica e nella motoristica.