Chissà se la telefonata di Barack Obama ad Angela Merkel nella giornata di ieri ha davvero cancellato le tensioni interatlantiche emerse nelle ultime battute del caso Opel. Gli Stati Uniti hanno più di una ragione, almeno apparente per mostrare “riconoscenza” a Berlino: innanzitutto, perché è lo Stato tedesco a pagare il conto per una controllata dall’americana Gm; secondo, a spingere Opel nelle braccia di Magna Steyr è stata la stessa casa di Detroit, che temeva assai l’arrivo sul mercato Usa, magari con il “brand” Chrysler, dei motori Opel.



Però, lo scontro tra Washington e Berlino nella notte tra giovedì e venerdì, quando si trattava di definire l’importo finanziario necessario per garantire l’uscita in bonis di Opel dalla bancarotta General Motors non è solo l’indice di un conflitto sui quattrini, pur importanti, ma anche di una situazione nuova: la crisi apre gli spazi a grosse novità negli equilibri dell’economia reale. Con le implicazioni politiche del caso. E se a Gm, com’è comprensibile, non dispiace che l’ex gioiello d’Europa, l’Opel, finisca in mani deboli, quelle della russa Sberbank , o transitorie (difficile che Magna Steyr rinneghi la sua vocazione di produttore di componenti che opera per conto terzi per trasformarsi in produttore diretto), piuttosto che sotto il controllo di Fiat-Chrysler, alla Casa Bianca possono valere ragionamenti opposti.



L’ingresso di Opel nella sfera dell’economia russa sotto il diretto controllo di Vladimir Putin (a caccia di affermazioni di prestigio in un momento molto delicato per il “suo” impero del gas, la Gazprom) non è una buona notizia per l’alleanza atlantica. Sotto la spinta di Gerhard Schroeder, oggi in pratica un funzionario di lusso delle relazioni tra Mosca e Berlino e l’interesse elettorale immediato delle amministrazioni socialdemocratiche dei lander interessati agli stabilimenti Opel, si consolida un nuovo tassello dell’asse tedesco/russo. Cosa che avrà le sue conseguenze nel tempo.



Queste e altre considerazioni possono inquadrare nella cornice giusta la “sconfitta” di Fiat. Sergio Marchionne ha giocato una partita tutta in salita contro un’intesa che era già scritta. Lo ha fatto agitando due armi: la convenienza economica, perché sul piano industriale non è stata mossa una sola obiezione di rilievo (salvo gossip sugli esuberi); il propellente della benedizione di Obama a una strategia globale che punta alla riduzione complessiva dell’offerta a quattro ruote, come premessa per il rilancio di un’offerta “verde”. Da quel punto di vista la Germania, punta di diamante della vecchia Europa, si è dimostrata insensibile.

La crisi dell’auto, al di qua dell’Atlantico, non è ancora così drammatica da imporre decisioni drastiche. Ahimè, la soluzione Opel va nella direzione opposta: nasce un nuovo competitor, che per trovare spazio dovrà giocare la carta del dumping (favorito da abbondanti finanziamenti pubblici). Marchionne, però, non ha giocato la carta dell’appoggio di Stato. Almeno non dello Stato italiano. Glielo fa notare con una punta di malignità, Giulio Tremonti che fa sapere che Berlusconi «avrebbe potuto fare parecchio» se gliel’avessero chiesto. Ma a Torino preferiscono puntare su Obama… Già, Berlusconi, che ha numerosi dossier aperti con Putin (non ultimo l’alleanza Gazprom/Eni via Libia), avrebbe potuto frenare gli entusiasmi dell’amico Vladimir.

Ma lasciamo da parte il passato, che pure peserà sul futuro, sia in Italia che sullo scacchiere degli equilibri del mondo a quattro ruote. Fiat esce dalla partita tedesca a fronte alta. Ma con non pochi problemi. In una situazione così fluida, in un certo senso rivoluzionaria, la sola integrazione con Chrysler non basta né a Torino né al colosso malato di Detroit. E non solo perché, come Marchionne sottolinea fino alla noia, nel futuro sarà necessario avere una dimensione di scala di almeno 6 milioni di vetture (su non più di sei piattaforme) per sperare in solidi profitti. Ma anche perché Fiat sa di essere in ritardo, sul fronte degli investimenti, per sfidare la concorrenza sulle vetture medio/alte.

L’integrazione con Opel avrebbe portato il gruppo torinese a disporre della tecnologia applicata ad Insignia. Oggi sarà necessario individuare un’altra soluzione esterna perché in cassa non ci sono i soldi sufficienti né c’è il tempo necessario per far le cose in casa. Occorrono alleanze, dunque. Ma la Fiat non può più contare sull’effetto sorpresa che tanto ha pesato nel caso Chrysler. Ormai le antenne dei competitors tedeschi sono ben drizzate. Difficile che Volkswagen, che ha in pratica arruolato l’ex prima linea di Mirafiori, consenta al gruppo nascente di consolidarsi.

Per questi motivi Fiat non potrà accontentarsi di Saab (troppo piccola per risolvere i problemi dell’Alfa). Certo, lo sbarco nella Gm sud americana sarebbe un’ottima notizia, sufficiente a consolidare quel tesoretto brasiliano che ha consentito al Lingotto di sopravvivere negli anni grami. Così come sarà importante allargare il fronte delle alleanze per le macchine movimento terra (unico interlocutore, il Giappone).

Ma il mercato che più pesa, e più conta per la società italiana, è naturalmente l’Europa. E qui, vista la mal parata tedesca, non resta che la carta francese di Psa. Facile prevedere che Marchionne, grande viaggiatore, lungo il tragitto tra Torino e Detroit farà spesso scalo a Parigi nei prossimi mesi. E qui, forse, Berlusconi servirà molto. O forse basterà madame Carla Bruni, forse la torinese più liquida del momento dopo aver ceduto il castello avito allo sceicco Al Waleed.