Nell’ordinamento tributario italiano non esiste, almeno formalmente, una norma anti-elusiva generale (destinata, cioè, in astratto a valere in ogni circostanza ed in ogni settore impositivo) che consenta all’amministrazione finanziaria di contrastare quei comportamenti indebiti dei contribuenti che cercano di “sfruttare” arbitrariamente la libertà negoziale loro riconosciuta al fine di ottenere vantaggi fiscali “disapprovati dal sistema”.



Vi sono invece svariate disposizioni specifiche, con cui si è cercato di porre di volta in volta un argine (spesso, ex post) a particolari fenomeni elusivi. Ciascuna di queste disposizioni, tuttavia, si applica solo ad un particolare tributo ed in relazione a fattispecie predeterminate, individuate in maniera più o meno ampia (e più o meno precisa) dal testo normativo. Il nostro legislatore ha, infatti, adottato fino ad oggi un approccio casistico all’elusione tributaria, inserendo tra le norme che disciplinano i singoli tributi specifiche disposizioni anti-abuso che individuano fattispecie potenzialmente elusive e prevedono una particolare reazione da parte dell’ordinamento tributario.



La più nota di queste norme anti-elusive è l’Articolo 37-bis del DPR 600/73, secondo cui, ai fini delle imposte sui redditi, l’amministrazione finanziaria può disconoscere i vantaggi tributari ottenuti mediante atti, fatti o negozi privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzioni di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti. Tale disposizione, tuttavia, si applica solo nell’ipotesi in cui sia stata posta in essere almeno una delle operazioni elencate nel comma 3. L’Articolo 37-bis, pur avendo una formulazione abbastanza ampia, resta comunque una norma specifica, posto che si applica solo alle imposte sui redditi e solo in relazione alle specifiche operazioni potenzialmente elusive indicate nel comma 3 citato.



La Corte di Cassazione ha cercato di rimediare all’assenza di una norma generale antielusiva formulando la cosiddetta teoria dell’abuso di diritto, secondo la quale vi sarebbe nell’ordinamento giuridico un principio (non scritto, ma immanente al sistema) volto a contrastare le pratiche elusive.

Tale teoria, elaborata in questi ultimi anni dalla sezione tributaria della Corte di Cassazione (sulla scorta di talune pronunce della Corte di Giustizia UE), è stata riformulata dalle sezioni unite della medesima corte nelle tre recenti sentenze 30055, 30056 e 30057 depositate il 23 dicembre 2008.

Due le novità essenziali: la fonte normativa dell’abuso di diritto e la sua stessa definizione.

Sotto il primo profilo, la Suprema Corte ha confermato l’esistenza di un generale principio antielusivo, “con la precisazione che la fonte di tale principio, in tema di tributi non armonizzati, quali le imposte dirette, va rinvenuta non nella giurisprudenza comunitaria quanto piuttosto negli stessi principi costituzionali che informano l’ordinamento tributario italiano” e, precisamente, nei principi di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione (art. 53, primo e secondo comma, Cost.).

Per quanto riguarda, invece, la nozione stessa di abuso di diritto, le sezioni unite hanno riformulato in profondità il precedente orientamento, giungendo ad una definizione certamente più puntuale (e, per molti versi, coerente con le disposizioni del già citato Articolo. 37-bis) del concetto di abuso.

La sezione tributaria, in diverse sentenze rese tra il 2006 ed il 2008, aveva ravvisato ipotesi di abuso di diritto in tutte le operazioni “compiute essenzialmente per il conseguimento di un vantaggio fiscale”, senza dare alcuna rilevanza all’esistenza o meno di un uso distorto (“patologico” e “artificioso”) di norme e strumenti contrattuali. La semplice presenza di tale vantaggio era quindi sufficiente, secondo questo orientamento della corte, per definire elusiva un’operazione, qualora il contribuente non fornisse la “prova della esistenza di ragioni economiche alternative e concorrenti di carattere non meramente marginale o teorico”.

Le sezioni unite hanno, invece, apprezzabilmente cambiato rotta con le tre sentenze sopra citate, ritenendo che vi sia abuso di diritto allorquando un contribuente tragga “indebiti vantaggi fiscali” grazie ad un “utilizzo distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quel risparmio fiscale”. In altri termini, tre sono gli elementi strutturali dell’abuso di diritto, così come (ri)elaborato dalle sezioni unite della corte di Cassazione: gli indebiti vantaggi fiscali, l’assenza di valide ragioni economiche e l’utilizzo distorto di strumenti giuridici.

Questa nozione di abuso appare coerente con la giurisprudenza comunitaria (si veda in particolare la decisione della Corte di Giustizia causa C-255/02, Halifax plc, del 21 febbraio 2006, le cui conclusioni erano state erroneamente interpretate dalla sezione tributaria della Corte di Cassazione) e riprende sostanzialmente il concetto di elusione disciplinato dall’Articolo 37-bis del DPR 600/73 (che, infatti, presuppone proprio l’assenza di valide ragioni economiche e l’aggiramento di norme e divieti al fine di ottenere un indebito vantaggio fiscale).

Le recenti decisioni della Suprema Corte (i cui principi sono stati confermati in varie sentenze rese nel 2009), seppur discutibili sotto diversi altri profili, hanno quindi il pregio di aver abbandonato la precedente visione “talebana” dell’abuso di diritto, dandone invece una definizione più ragionevole ed in linea con la “tradizione” (italiana ed europea). Più precisamente, la Suprema Corte ha il merito di aver ridato vigore ad un principio essenziale. La mera esistenza di un vantaggio fiscale non implica di per se che l’operazione sia elusiva. E’ necessario, infatti, che al vantaggio fiscale (sia pur prevalente rispetto alle altre motivazioni economiche) si accompagni anche un aggiramento delle norme tributarie mediante l’utilizzo distorto e patologico di schemi contrattuali.

L’apprezzamento per questa più puntuale definizione del concetto di abuso non consente comunque di superare le numerose perplessità suscitate dall’orientamento della Cassazione in materia di regola generale antielusiva. L’aver introdotto questo principio rischia infatti di minare la certezza del diritto, concedendo all’amministrazione ed alla giurisprudenza un eccessivo potere di sindacato sulle scelte imprenditoriali. In proposito, due aspetti appaiono particolarmente problematici. Da un lato, la circostanza che la presunta natura elusiva di una operazione possa essere rilevata d’ufficio, secondo l’opinione della Suprema Corte, in ogni stato e grado del giudizio. Dall’altro, l’incertezza circa l’applicabilità o meno, in materia di clausola generale anti-abuso, delle garanzie procedimentali previste dall’Articolo 37-bis del DPR 600/73. Non si può quindi che concordare con coloro che invocano a gran voce un intervento legislativo che disciplini in modo esaustivo la materia. E, per fortuna, sembra che i tecnici del Governo siano all’opera.