La crisi non è finita e ci sarà ancora da soffrire, probabilmente più di quanto a un certo punto si era cominciato a pensare. Ovvero andiamo meglio ma siamo ancora messi male. È questa, in estrema sintesi, la sensazione che si ricava sia dai dati diffusi ieri dall’Istat sia più in generale dall’ultima settimana di dati economici, in parte davvero negativi e in parte interpretati in senso sfavorevole.



Per quanto attiene ai dati Istat di ieri, da un lato abbiamo il risultato congiunturale della produzione industriale, che nel mese di aprile vede un rialzo dell’1,1% rispetto al mese precedente, e si tratta del primo dato positivo dopo 11 mesi di caduta; dall’altro l’Istituto nazionale di statistica corregge al ribasso le stime preliminari diffuse a maggio indicando che nel primo trimestre 2009 il nostro Pil è calato del 6% (e non del 5,9%) rispetto allo stesso trimestre del 2008 e del 2,6% (e non del 2,4%) rispetto al trimestre precedente, il calo peggiore dal 1980. Dunque il Pil nel primo trimestre frena più del previsto mentre la produzione industriale torna a crescere.



Come interpretare questi numeri, almeno in parte, contraddittori? Dobbiamo fare un passo indietro. Solo il mese scorso il Centro Studi di Confindustria segnalava il consolidamento dei “germogli della ripresa” e l’indice anticipatore Ocse indicava uno scenario in progressivo miglioramento con il punto di svolta della crisi previsto per l’estate. Poi le cose sono un po’ cambiate. Dapprima i dati Eurostat sulla disoccupazione, che ha raggiunto nella zona euro il livello record del 9,2%: un risultato forse più negativo di quanto ci si poteva aspettare, ma nemmeno così drammatico da far pensare alla catastrofe. Poi è entrata in campo la Banca Centrale Europea, che prima non ha ridotto i tassi di interesse e in seguito ha tagliato le stime della crescita prevista per il 2009 e il 2010.



È importante osservare che questi ultimi dati sono stati letti e interpretati quando sullo sfondo riecheggiavano ancora le frasi conclusive contenute nelle Considerazioni finali del Governatore della Banca d’Italia Draghi: «Negli ultimi vent’anni la nostra è stata una storia di produttività stagnante, bassi investimenti, bassi salari, bassi consumi, tasse alte». Un epitaffio in piena regola per un sistema economico produttivo che negli ultimi anni è stato invece capace di realizzare un riposizionamento geografico e strategico davvero straordinario che ha peraltro condotto ai ben noti risultati record del nostro export degli ultimi anni.

Questa attitudine negativa (qualcuno dirà che è solo realismo!) non ha permesso di notare, ad esempio, come i mercati non si siano quasi accorti del mancato taglio dei tassi da parte della Bce: solo pochi mesi fa avremmo assistito a un tracollo delle quotazioni di borsa, che questa volta fortunatamente non c’è stato.

Quanto alla disoccupazione, è vero che si tratta probabilmente della variabile più importante della crisi e quella da monitorare con più attenzione perché da essa viene a dipendere il livello di coesione sociale che si riesce a conservare nel Paese, ma d’altra parte il livello indicato da Eurostat, nel momento peggiore della crisi, è solo di due decimi di punto percentuali maggiore di quello di dieci anni fa (a settembre 1999 la disoccupazione dell’Eurozona era al 9,0%) e comunque di ben un punto percentuale inferiore di quello dell’aprile del 1998 quando era del 10,2%. Questi riferimenti temporali a un passato non poi troppo lontano servono a porre nel giusto contesto il livello di disoccupazione che dobbiamo oggi fronteggiare, senza cadere in atteggiamenti di eccessiva negatività che oggi non servono a nessuno.

Anche perché da segnalare vi sono anche dati positivi. Uno di questi, rilevato dall’Istat nel suo Rapporto annuale sulla situazione del Paese, è che nonostante la crisi esiste oggi in Italia un consistente nucleo di circa 6500 imprese (più di un’impresa esportatrice su quattro) che ha saputo realizzare addirittura un incremento di vendite all’estero nel primo bimestre 2009 rispetto allo stesso periodo del 2008. Ma quali sono le caratteristiche che aumentano la probabilità di aumentare le esportazioni? Certamente il profilo settoriale è importante, e in questo senso molto aiuta l’appartenenza ai comparti dell’alimentare, degli apparecchi medicali e degli altri mezzi di trasporto piuttosto che a quelli degli autoveicoli o del legno, ma due aspetti generali sono particolarmente rilevanti: il primo è la capacità di modificare la composizione merceologica delle esportazioni, e il secondo è l’abilità di trovare nuovi mercati di sbocco per i prodotti modificando l’orientamento geografico delle produzioni. I risultati del doppio riposizionamento strategico e produttivo cui si accennava sopra sono quindi oggi ben visibili e fanno ben sperare per il futuro.

Sono ormai veramente tanti gli esempi di imprese in cui la crisi viene affrontata facendo perno su una fortissima coesione e cooperazione tra datori di lavoro e dipendenti, con i primi che cercano in ogni modo di evitare i licenziamenti e mantenere la capacità produttiva, con il ricorso alla cassa integrazione ma anche trasformando contratti a tempo pieno in contratti a tempo parziale, e con i secondi sempre più disposti ad accettare riduzioni d’orario (e di stipendio) per preservare posti di lavoro. Bene allora ha fatto la Presidente Emma Marcegaglia, nella sua relazione all’Assemblea di Confindustria del mese scorso, a rivolgersi agli imprenditori enfatizzando «lo straordinario patrimonio che tutti voi rappresentate con le vostre aziende e con le persone alle quali date lavoro e con le quali condividete sforzi e passione anche nel fronteggiare la crisi».

Dunque sono ancora le nostre piccole e medie imprese a mandare i segnali più belli di una imprenditorialità che “tiene” anche in una situazione di grandissima complessità che richiede scelte difficili. Scelte che si possono comprendere solo ricordando che alla base dell’attività imprenditoriale vi sono una volontà, una tenacia, un progetto di lungo periodo, un desiderio di libertà e creatività che non si possono in nessun modo comprimere, come ancora pretende una parte significativa della nostra teoria economica, facendo riferimento solo alla ricerca del massimo profitto.

Il profitto resta un importante indicatore del buon funzionamento delle operazioni di un’impresa e anche una necessaria ricompensa per lo sforzo e per il rischio che sono insiti in ogni attività imprenditoriale. Ma con la sola ricerca del profitto non si giustificano e non si comprendono le tante belle storie che, anche nella crisi, stanno scrivendo le nostre piccole imprese.