In inglese verrebbe definito “payback time”, il tempo della rivincita. Se infatti ieri anche il famoso, autorevole e citatissimo economista Nouriel Roubini (vaticinante spesso e volentieri su Repubblica) ha deciso di dedicare la sua newsletter settimanale al rischio di una crisi sul modello asiatico per l’Est europeo partendo dai guai che stanno affliggendo la Lettonia, vuol dire che ci siamo.



L’ondata è arrivata e a poco a poco farà sentire tutta la sua forza, a meno che il Fondo Monetario non decida di comune accordo con la Commissione Ue di mettere ulteriormente mano al portafogli visto che la rata di maggio del prestito-ponte accordato al paese baltico ad inizio anno non è servita a migliore i conti. Anzi. Il lat, la moneta lettone, è legata all’euro da un rapporto di oscillazione da
-1 a +1 per cento ma sono i conti in generale ad essere fuori controllo, con esposizioni del 140% rispetto alle riserve.



Insomma, l’unica è svalutare del 30% il lat ma a Riga non vogliono sentire nemmeno parlare di questa ipotesi poiché i contraccolpi sociali sarebbero a dir poco devastanti: tagli dei salari netti per tutti i dipendenti pubblici, licenziamenti di massa nel settore dell’istruzione e un potenziale rischio di destabilizzazione. Il problema è che le ipotesi sul tappeto sono due e due soltanto: o il Fmi paga – e non sembra intenzionato a farlo, almeno per ora – o si svaluta, altrimenti il rischio di domino verso le altre repubbliche baltiche e verso paesi come Ungheria e Repubblica Ceca è pressoché certo.



Non è un caso che ieri la Svezia abbia richiesto e ottenuto un prestito d’emergenza dalla Bce di 3 miliardi di euro per tamponare la crisi lettone vista l’alta esposizione delle banche svedesi verso la repubblica baltica: chiesto e ottenuto in poche ore, suona come una situazione che non ammette ritardi. Ora che l’ha detto anche Roubini, magari, qualcuno comincerà a credere che il rischio è reale. Ma non è questa la sola previsione che il Sussidiario aveva azzeccato in anticipo.

È di ieri infatti la notizia che la catena di grande distribuzione tedesca Arcandor, che controlla tra l’altro i grandi magazzini Karstadt e soprattutto l’operatore Thomas Cook, ha fatto richiesta di aiuti di stato e di un prestito d’emergenza: insomma, è in fila per la bancarotta garantita dallo Stato. Questo significa che, ad esempio, il gigante del turismo Thomas Cook rimarrà controllato da Arcandor al 53% ma attraverso garanzie sui prestiti contratti con otto banche, tra cui Royal Bank of
Scotland (nazionalizzata da Gordon Brown), Commerzbank e Bayern LB. Peccato che Commerzbank sia in predicato di dover denunciare qualcosa come 101 miliardi di titoli tossici nei bilanci da scaricare: auguri a entrambe, controllata a e controllante.

E sempre come anticipato dal Sussidiario il 7 maggio scorso, Obama ha bellamente calpestato i diritti dei creditori privati e dei fondi di Chrysler obbligando quasi manu militari a cedere il marchio a Fiat. Avevate dubbi voi? Noi no, già un mese fa. Giova ricordare, ora che i giornali festeggiando trionfante Marchionne come nuovo ad dell’ex colosso di Detroit, i due punti interrogativi che restano inevasi.

Primo, con gli anni il gigante di Detroit aveva praticamente smesso di preoccuparsi di produrre automobili perché si era trasformato nel più grande detentore di obbligazioni come fondo pensione e sanitario, qualcosa come 200 miliardi di dollari alla fine dello scorso anno: insomma, porta sempre aperta per le esorbitanti richieste salariali dei sindacati, produzione desueta e scadente ma leva di leverage sul mercato health&pension da banca d’affari. Bush prima e Obama poi hanno provato a tamponare ma ora la procedura fallimentare dettata dal chapter 11 brucerà quei fondi dei contribuenti, i quali si trasformeranno in creditori qualsiasi da aggiungersi alla fila: chi dovrà rispondere alle lamentele di quella fila una volta compiuta la fusione, secondo voi? Obama non potrà sempre dettare le sentenze ai propri tribunali e continuare a scontentare – o derubare, forse è il termine migliore – creditori e fondi.

Secondo: dall’operazione Fiat acquisirà la rete di distributori di Chrysler per entrare nel mercato americano. Bugia, almeno in parte e questo spiegherebbe l’immediato attivismo tedesco di Marchionne che fiutata la fregatura targata Obama stava cercando l’opzione aggregative Opel sperando nei fondi statali tedeschi. Soltanto nel mese di aprile sono stati chiusi quarantacinque concessionari Chrysler e nelle prossime settimane questo numero è destinato a salire esponenzialmente per un semplice dettaglio che nessuno sembra aver notato: l’essere terminata in amministrazione controllata sotto il chapter 11 consente a Chrysler, in virtù dell’obbligo di riduzione di costi e spese, di tagliare a dismisura tra i concessionari senza incorrere nella legge Usa sulla franchigia.

Dicevamo in maggio che in totale l’azienda ha 3150 dealers ma ne metterà sul mercato, entro pochi mesi, fino a 1500. Ci sbagliavano noi questa volta, saranno oltre 1800. Questo significa meno presenza sul territorio, vendita a prezzo di saldo per necessità di liquidi e quindi l’assalto dei concorrenti pronti a cannibalizzare e ulteriore disaffezione visto che in un regime di libera offerta se il concessionario della mia auto era a quindici minuti e ora, in virtù delle chiusure, il più vicino è a quarantacinque minuti quando non un’ora, cambio modello e punto oltre che sulla qualità e la convenienza anche sulla capillarità del servizio di assistenza. D’altronde Obama ha
giustamente altro a cui pensare.

Il fatto che nel giorno in cui dieci banche si sono dichiarate pronte a ripagare quanto ottenuto attraverso il programma Tarp il Dow Jones abbia chiuso in negativo martedì sera e aperto in positivo dello 0,2% ieri la dice lunga su quanto il mercato si fidi del reale stato di salute di quegli istituti e della reale serietà degli stress test messi in atto: lo ripetiamo, il 99% delle banche americane è insolvente.

Per finire una buona notizia, anch’essa anticipata dal Sussidiario sul finire di aprile: la tanto vituperata Gran Bretagna del liberismo finanziario ieri ha visto il primo segnale di ripresa dell’economia con un aumento della produzione industriale dello 0,3%, poco ma sufficiente a far toccare alla sterlina il massimo da ottobre dello scorso anno.

Una previsione ulteriore? Tempo due anni la Gran Bretagna aderirà all’Efta dicendo addio all’Ue, la stretta regolatoria varata dall’Ecofin dell’altro giorno parla chiaro e la City sa già cosa chiedere al futuro primo ministro: con l’80% degli hedge funds europei su territorio britannico, occorre tutelare investimenti, cash flow posti di lavoro. Molti di questi fondi stanno per fare le valige in direzione Ginevra: o l’asse franco-tedesco si ammorbidisce oppure Londra sarà costretta all’addio.