Al lavoro. Certo, è ingeneroso questo richiamo a Sergio Marchionne che negli ultimi sei mesi avrà traversato l’Atlantico almeno trenta volte e speso almeno 1.300-1.400 ore al tavolo delle trattative con politici, sindacalisti e banchieri in Usa, Germania e, naturalmente, in Italia. Il tutto, naturalmente, senza aver trascurato la guida del Lingotto che, tra l’altro, impone non pochi appuntamenti pubblici.



Eppure dal 15 giugno si passa, in un certo senso, dalle teorie ai fatti. Sergio Marchionne indossa i panni del chief executive officer di Chrysler. L’America, che ama le competizioni, già si domanda chi fallirà per primo: questo italo-candese in pullover oppure il texano Edward Whiteacre, scelto per guidare il risanamento di Gm, già ribattezzata dai non pochi critici dei salvataggi di Detroit, “Government Motors”? I due hanno molto in comune. Sono stati scelti, innanzitutto, da Barack Obama in persona. Entrambi possono vantare nel curriculum almeno un rilancio industriale: la Fiat, ovviamente, è il fiore all’occhiello di Marchionne; At&t, colpita dalla crisi alla pari degli ex incumbent delle tlc, ha cambiato volto sotto la guida di Whiteacre, repubblicano che vanta un lungo sodalizio con il democratico Bill Daley, fratello dell’onnipotente sindaco di Chicago (la città di Obama) Richard Daley. Tutti e due sono comunque chiamati ad una “mission impossibile”.



Anche oggi, infatti, giorno dell’esordio di Sergio Marchionne nel grattacielo di Auburn Hills (che presto sarà venduto), Chrysler perderà 100 milioni di dollari. Difficile che dal fronte dei dealers rimasti, dopo il taglio di 789 agenti di vendita della casa, arrivino buone notizie. Lo stop imposto dall’amministrazione controllata, più la debolezza del ramo finanziario di Chrysler (in pratica mantenuto dalle anticipazioni governative) hanno lasciato il segno sulle quote di mercato: quest’anno negli Usa si venderà il 24% in meno di auto rispetto al già debole 2008. Ma per Chrysler il salasso potrebbe essere quasi doppio.



Certo, di fronte a questi numeri, nessuno può chiedere a Marchionne di invertire la rotta nel giro di pochi mesi. Ma non è difficile prevedere che i prossimi mesi, prima che la cura dia i primi frutti, saranno i più delicati: Marchionne, come già fece in Fiat, punterà a semplificare la prima linea, tagliando le teste dei dirigenti di lungo corso («come il colesterolo – disse una volta – impediscono al sangue di fluire come dovrebbe») , cosa che di sicuro non comporta popolarità.

Si lavorerà duro alle linee di produzione di Chrysler per assimilare nei tempi più brevi le tecnologie in arrivo da Torino. Ma la prima vettura del nuovo corso uscirà dalle linee di produzione all’inizio del 2011.

Fino a quel momento, il pubblico percepirà poco di un lavoro immenso, con pochi precedenti nella storia dell’auto: l’obiettivo è di utilizzare tecnologie Fiat in sei veicoli Chrysler, oltre ad altrettante macchine del gruppo torinese (500, Alfa, Fiat Bravo) realizzate negli impianti di Toluca (Messico), Detroit e Brampton nell’Ontario. In attesa dei primi risultati di vendita, i mercati finanziari baderanno ad altre cose: ce la farà la Fiat a rifinanziare 4,5 miliardi di euro di debiti entro la fine del 2009? Riuscirà il gruppo torinese a mantenere il rating, nonostante i richiami minacciosi di S&P?

Inutile negare che la scommessa ha non poche criticità: il mercato dell’auto non accenna a riprendersi (in Europa, nonostante gli incentivi, quest’anno si calerà del 13%); sul fronte interno, poi, Fiat ha potuto contare finora su un atteggiamento non ostile sul fronte sindacale. Ma, come dimostra il black out di Melfi, la tensione sale. La lunga offensiva di Marchionne per mettere assieme (Fiat, Chrysler ed Opel oltre alle attività del Sud America di Gm) un gruppo capace di sfornare sei milioni di veicoli ha senz’altro alimentato speranze e attenzioni della Borsa (Fiat è in ripresa del 70% da gennaio) ma ha messo a dura prova i nervi degli stakeholders (a partire da fornitori della componentistica e dipendenti).

Non è un mistero che la prospettiva di conquistare Opel, assai più avanti nel segmento C grazie al modello Insignia, ha suggerito di rallentare investimenti in quel segmento, comunque troppo onerosi in tempo di crisi. Insomma, logica vorrebbe che, esaurita la fase dei colpi di scena, la Fiat e Marchionne siano destinati ad entrare in un cono d’ombra, dentro un tunnel in cui non si vedrà la luce troppo presto. Ma questi non sono tempi normali, in cui valga la logica tradizionale.

Non è affatto detto, innanzitutto, che non si riapra la partita Opel, ormai tema caldo delle elezioni tedesche. A prima vista l’affare sembra blindato. Ma le crepe non mancano. Da una parte, sul fronte politico i vantaggi garantiti al consorzio Magna-Sberbank stanno creando malumori (ormai si parla di Lex Opel al Parlamento tedesco) che minacciano di trasformare il voto di settembre in una sorta di plebiscito pro o contro i salvataggi, con l’aggravante che il governo si è rifiutato di garantire ad Alcandor i vantaggi di cui hanno goduto i dipendenti Opel.

Dall’altra il fronte russo lancia segnali contraddittori. La Sberbank, banca che finanzia l’operazione in quanto principale creditrice del costruttore russo Gaz, ha già fatto sapere di ritenere temporaneo il suo impegno. E Oleg Deripaska, proprietario di Gaz già protetto dal Cremlino, in gravi condizioni finanziarie, si è trovato costretto a cercare un accordo con le Generali su Ingosstrakh, la compagnia di assicurazioni in cui detiene la maggioranza e che, fino a pochi giorni fa, non aveva alcuna intenzione di cedere.

Al contrario, la settimana scorsa Deripaska ha fatto un passo verso Trieste, assumendo come intermediario d’affari Banca Leonardo di Gerardo Braggiotti. Con quali obiettivi? Deripaska potrebbe voler far cassa per concentrarsi nella sfida Opel. Oppure Leonardo & Co, in cui l’Exor ha una rilevante partecipazione, potrebbe essere la “stanza segreta” in cui trattare un eventuale coinvolgimento di Fiat nella fase due di Opel, boccone troppo grosso, sul piano delle tecnologie e della visione industriale, per la cordata Magna-Sberbank-Gaz. E Berlusconi, in ottimi rapporti con Vladimir Putin, vero ispiratore dell’offerta russa, potrebbe trovare una quadra politica soddisfacente per tutti.

Fantaeconomia? Per ora sì. Ma dopo sei mesi di colpi di scena, l’unico dato su cui sono tutti d’accordo è che gli attori, politici ed industriali, del mondo a quattro ruote brillano tutti per debolezza. Come pugili un po’ suonati che si abbracciano nell’attesa del gong. Difficile che qualcuno abbia nel pugno il colpo del ko.