Obama ha presentato la riforma del sistema operativo della finanza Usa. Una riforma politica prima ancora che economica, dice l’economista Mario Deaglio. Per marcare segnare una prima differenza importante dopo l’era Bush, quando con i soldi pubblici si sono salvate le banche. Prevale, nelle massime autorità, il tentativo di limitare con regole certe gli abusi della finanza, quella “struttura finanziaria parallela” già stigmatizzata da Mario Draghi nel luglio dello scorso anno; o di definire strategie di uscita da certe politiche pubbliche che non paiono lungimiranti, perché la fine della crisi è ancora lontana.



Deaglio, la Financial Regulatory Reform mette mano alla «pulizia del gran disordine» di Wall Street, come ha detto il presidente Obama. E affida alla Fed un ruolo di “superpolizia”. È sorpreso?

No, se collochiamo la riforma nella situazione politica complessiva e nella politica economica di Obama. Il presidente Usa è stato eletto sulla base della promessa di tutelare i risparmiatori e i consumatori e invece si è trovato, appena eletto, a dover salvare le banche con i soldi pubblici. In altre parole ha continuato senza differenze apprezzabili la politica di Bush. Questo ha creato nei democratici un certo sconcerto, che da noi è stato sottovalutato ma che in Usa è abbastanza forte. A questo punto la domanda politica, prima ancora che economica, era che le istituzioni che sono state beneficiarie degli aiuti pubblici mutassero radicalmente nei loro rapporto con tutti gli stakeholders.



Non c’è il rischio che la concentrazione di competenze nella Fed renda più arbitraria la regolamentazione di cui si avverte la necessità?

Se guardiamo la riforma dal punto di vista di una banca centrale europea si tratta di misure assolutamente necessarie e di buon senso, che seguono – per quello che ne sappiamo ora – molto blandamente le misure in vigore da noi. In Italia la banca centrale può vedere assolutamente tutto, fino all’ultima virgola, e lo fa. Facendosi mandare ogni settimana in forma computerizzata i conti di tutte le banche italiane. E se non è convinta di qualcosa manda gli ispettori.



Non è quindi il caso di scandalizzarsi se questo accade nella capitale del liberismo.

Chi crede nel liberismo senza regole griderà allo scandalo, ma chi pensa che le regole sono necessarie non poteva certo illudersi che con i guai che hanno combinato le banche americane, si potesse pensare di lasciarle lì a farne altri con i soldi pubblici.

Anche Mario Draghi è tornato di recente a stigmatizzare una carenza di regolamentazione. Al tempo stesso ha detto che occorre far sì che la regolamentazione non soffochi del tutto l’innovazione finanziaria, alla quale non si può rinunciare.

Draghi è un convinto liberista, però è anche il governatore della banca centrale più severa d’Europa e quindi sa benissimo che buone regole hanno contribuito a far sì che le banche italiane non fossero travolte dalla crisi com’è stato per le banche straniere. Non dimentichiamo che il Financial Stability Board che egli presiede dovrebbe preparare per la fine di settembre, cioè per l’assemblea del Fmi, un rapporto su come vanno cambiate le regole. E questo spiega il suo tentativo di trovare un compromesso, che in pratica sarà poi il tentativo di trovare un compromesso tra i componenti del Board e i vari paesi che dovranno approvare le sue proposte.

Il suo è quindi un atteggiamento improntato alla prudenza?

Non dimentichiamo la denuncia dello stesso Draghi nella sua relazione del 31 luglio 2008, quando disse che i grandi centro finanziari mondiali avevano creato una “struttura finanziaria parallela”. Parole fortissime per un banchiere centrale. È controproducente quindi in un momento come questo osannare l’innovazione, quando c’è invece bisogno di chiarezza e di un po’ più di trasparenza.

Qual è a suo avviso il senso del richiamo del Governatore alla necessità di elaborare «strategie di uscita» da politiche di bilancio troppo espansionistiche e finalizzate a «mantenere l’ancoraggio delle aspettative di inflazione»?

 

Io vedo il discorso di Draghi come il logico completamento del discorso di Bernanke del 3 giugno, in cui il capo della Fed ha lanciato un forte warning al governo Usa che potremmo ritradurre in questi termini: è vero che avete sfide importanti di breve periodo come la disoccupazione, ma al tempo stesso la vostra prima sfida di medio-lungo periodo è la tenuta dell’intero sistema finanziario, e se salta quello salta tutto. Questa banca centrale non vi aiuterà più di tanto. Dovete presentare un piano di rientro dal deficit mostruoso che state creando.

E quando Draghi parla di exit strategy dice proprio questo?

Direi di sì: bisogna che i debiti pubblici, e quindi i deficit, non vadano fuori controllo più di quanto lo sono ora. È la prima volta che c’è il riconoscimento ufficiale da parte dell’uno e dell’altro che l’uscita attuale dalla crisi non va bene. E non è vero – aggiungo io – che i dati dell’economia reale stanno migliorando. Il fondo della recessione, che sembrava essere stato toccato, ancora non si vede. È dal 2007 che si continua a spostare sempre un po’ più in là il termine della crisi. La realtà è che la profondità di caduta dell’economia reale ha colto tutti di sorpresa.

Secondo gli ultimi dati Ocse dobbiamo aspettarci un calo del Pil del 5,3% nel 2009, seguito da una ripresa dello 0,4% nel 2010. E una disoccupazione al 10% alla fine del 2009. L’Ocse punta il dito contro una certa “debolezza del sistema italiano di welfare”.

Il sistema delle pensioni andrà gradualmente a regime nell’arco di altri 20, 25 anni. Le pensioni scenderanno rispetto allo stipendio e i giovani di oggi se la vedranno durissima. Tuttavia è un sistema stabilizzato e il deficit che crea non dovrebbe aumentare più, se mai ridursi un poco se prolunghiamo l’età pensionabile. E la nostra sanità, se la guardiamo in termini di Pil, costa poco: circa la metà di quella americana, ma con risultati migliori.

I dati Ocse danno in aumento il nostro debito pubblico: oltre il 115% del Pil e vicino al 120% entro la fine del 2010. Non dicono però nulla del nostro risparmio privato…

Infatti. E non dicono che quell’aumento è molto inferiore a quello che si prospetta per Gran Bretagna, Francia e Germania che partono da quote più basse ma che vedranno un aumento del debito ben superiore al nostro, avvicinandosi quindi ai livelli italiani. Non c’è da stupirsi: nonostante tutti questi warning, se un governo deve scegliere tra il 25% di disoccupati e il 25% di inflazione, sceglie certamente il 25% di inflazione.

I Tremonti bond sono pronti, ma le imprese non chiedono credito perché soffrono. Fino ad oggi la crisi all’Italia non è costata un euro. Stiamo pagando in termini di economia reale quello che non abbiamo speso dando soldi pubblici alle banche?

Forse, ma altri paesi stanno pagando entrambi i costi. Le nostre banche stanno bene e hanno i conti a posto, ma non sono stragonfie di liquidità: l’aumento del rischio che c’è nel sistema impone alle banche di patrimonializzarsi e di conseguenza i prestiti diminuiscono. Il nostro problema è riuscire a concentrare gli aiuti sulle imprese, ma qualcosa cambierebbe se se ci fosse qualche forma di garanzia a loro favore.

A che cosa pensa?

A uno strumento come la Cassa depositi e prestiti. Potrebbe aiutare le imprese senza esborsi particolari, ma semplicemente emettendo fideiussioni. Di fronte ad una garanzia di Cdp la banca vedrebbe ridotto il livello di rischio e quindi potrebbe dare più credito. E non verrebbero toccati i conti pubblici.

Un’ultima considerazione. Se i segnali macroeconomici non sono positivi, come vede l’impennata dei mercati?

È stata totalmente dovuta ai salvataggi delle banche. Ma adesso tutti hanno paura dei bilanci semestrali che usciranno. I segnali che arrivano dalle imprese, in Italia e all’estero, non sono buoni e quindi c’è l’impressione che la crisi possa estendersi anziché ridursi. La maggioranza dei commentatori ha creduto che con marzo la caduta produttiva fosse finita e ha sopravvalutato i germogli della ripresa. In realtà nelle ultime otto settimane il clima è cambiato e i germogli si sono gelati. Si è visto che la caduta era più forte del previsto e la ripresa più lontana. Senza dubbio sarà molto più lenta di quello che si pensava fino a due mesi fa.