Questa settimana appare di cruciale importanza per le sorti dell’economia e della finanza mondiali per due appuntamenti: la riunione della Fed di domani e l’asta da 104 miliardi di dollari di bond governativi Usa, un vero record. Se vivessimo in un mondo normale, ovvero dominato dalla realtà e dai fondamentali, quell’asta dovrebbe andare deserta come quella tenutasi dieci giorni fa in Lettonia. Il dollaro, infatti, è ormai una moneta desueta e soprattutto tutt’altro che stabile: prima il governatore della Banca del Popolo Cinese, Zhou Xiaochuan e poi il presidente russo, Dimitri Medvedev, hanno infatti chiesto la sua sostituzione per denominare le riserve mondiali con lo “Special drawing right” (sdr), una sorta di moneta interna del Fondo Monetario Internazionale. Insomma, non siamo al Bancor di keynesiana memoria ma poco ci manca.
Eppure, vedrete, quell’asta sarà un successo. E i primi ad accorrere – nonostante a inizio giugno risero in faccia al segretario al Tesoro Usa, Timothy Geithner, quando questi, durante una lecture all’università di Pechino, definì «gli asset finanziari di Pechino denominati in dollari estremamente al sicuro» – saranno proprio i cinesi. Sapete perché? Perché Usa e Cina si mantengono in piedi vicendevolmente: l’America ha bisogno che qualcuno compri il suo debito, la Cina deve piazzare il suo surplus su un mercato abbastanza grande da reggerlo. Et voilà.
Non importa quanto il dollaro sia realmente vulnerabile – dal 2002 la sua forza in ambito commerciale, calcolata su un paniere di altre valute, è scesa da 112 a 81 punti – la cosa fondamentale è che senza non si può stare. Almeno per ora. Certo, che ci sia nervosismo attorno al futuro del biglietto verde lo testimonia quanto accaduto due settimane fa a Chiasso, quando i finanzieri hanno bloccato due uomini di nazionalità apparentemente giapponese – ma poi si è scoperto che sarebbero stati filippini – che portavano con loro in una valigetta con doppio fondo bonds del governo statunitense denominati in dollari per il controvalore di 134 miliardi. Per quanto quel confine ne abbia viste di tutti i colori, fermare qualcuno che porta in valigia un controvalore superiore al Pil di Singapore appare strano.
Immediate si sono sviluppate le teorie del complotto: i due sarebbero stati emissari del governo giapponese in Italia per il G8 e intenzionati a fare un salto in Svizzera per scaricare un po’ del debito Usa che Tokyo ha comprato negli anni e che ora vuole eliminare. Follia, pura. Una cosa resta, però: quando si arriva a pensare di farla franca con una truffa simile, significa che nell’opinione pubblica si è ingenerata la convinzione che il dollaro scotta e che si rischia di bruciarsi tenendoselo in casa. Un’idea forse più pericolosa della truffa in sé.
D’altronde per Oliver Accominotti, economista all’Università di Parigi, la tentazione cinese potrebbe essere quella che colpì la Francia negli anni Venti, «quando si pensò di scaricare un po’ delle immense riserve in sterline. Non lo si fece perché la Banca centrale francese si ritrovò nella cosiddetta “sterling trap”, ovvero scaricare il pound avrebbe fato precipitare la divisa inglese al collasso e comportato enormi perdite sul cambio per Parigi». Insomma, non si uccide per il rischio di morire insieme alla vittima predestinata.
Per Neil Mellor della Bank of New York Mellon, «sia gli Usa che la Cina sanno che il dollaro è indebolito ma nessuno dei due può permettersi il collasso dell’altro. Se sei nel gioco resti nel gioco, tanto più che la scommessa in dollari che si rischia di perdere è decisamente alta. Se sul lungo periodo è ovvio che la Cina sia tentata di scaricare un po’ di debito Usa e diversificarlo ai margini, è altrettanto chiaro che ora è fuori discussione».
Un vicolo cieco da cui non si può uscire, anche perché – parliamoci chiaro – se esiste una ricetta per distruggere una moneta gli Usa la stanno seguendo alla lettera: tassi d’interesse a zero, denaro contante pompato direttamente nell’economia, trilioni di dollari investiti in un pacchetto di stimolo fiscale per portare fuori il paese dalla recessione, una politica da “nanny state” verso le banche al collasso. Insomma, domani vedremo quali altri conigli Tim Geithner e la Fed sapranno tirare fuori dal cilindro: finora più che conigli sembravano cavie poi rivelatesi pantegane. Perché continuare in questa politica folle, quindi? Solo perché la Cina è obbligata a stare al gioco? Domenica una notizia apparentemente slegata da questo discorso ha attirato la mia attenzione: lo staff di Goldman Sachs, comprese le oltre 4mila persone impiegate nella City di Londra, riceverà a breve i più alti bonus mai pagati dall’azienda in 140 anni. Non solo i top managers ma tutti quanti.
Il perché è presto detto: grazie alla mancanza di competizione nel mercato e soprattutto a un incredibile aumento dei profitti dato dal commercio sulle valute e sui bond, a inizio aprile il management ha deciso di accantonare metà del profitto trimestrale dell’azienda di 1,2 miliardi di dollari per i bonus dello staff. Questo in tempo di crisi e recessione: che cuore d’oro e soprattutto che capacità di creare business! E pensate che i risultati del secondo trimestre saranno ancora migliori: non a caso Warren Buffett fiutò l’affare fin da gennaio quando comprò azioni Goldman per 5 miliardi di dollari e ora può già contare su un guadagno netto di 1 miliardo.
Fin qui i peana, ora la verità: politica prima che finanziaria. Goldman Sachs è il broker principale dei bonds governativi statunitensi, di fatto “lavora” per il governo per piazzare in giro il debito Usa e più il governo crea, più Goldman piazza e più guadagna. Chi pensate stia facendo la politica monetaria Usa, Geithner forse? Non siate ingenui: il fatto che la scorsa settimana Goldman Sachs abbia “predetto” che il governo Obama dovrebbe emettere 3,25 miliardi di debito tramite bonds entro settembre vi pare una previsione o una decisione? Bravi, la seconda.
Vendendo e trattando quei bonds, Goldman farà altri miliardi di dollari e pagherà altri faraonici bonus al suo staff alla faccia della crisi e della recessione. Ecco il succo del “Yes, we can” di Obama, il poter essere molto più di George W. Bush e persino di Dick Cheney al servizio delle lobby e della banche d’affari che la crisi hanno contribuito a crearla e da cui, a tutt’oggi, traggono invece profitto. Potrei andare avanti ma il concetto penso lo abbiate capito, meglio quindi lasciarvi con la profetica frase che Michael Douglas-Gordon Gekko dice a Buddy-Charlie Sheen in “Wall Street”:
«Il più ricco 1 per cento del paese possiede metà della ricchezza del paese, 5 trilioni di dollari. Un terzo di questi viene dal duro lavoro, 2/3 dai beni ereditati, interessi sugli interessi accumulati da vedove e figli idioti, e dal mio lavoro, la speculazione mobiliare-immobiliare. È una s…….a, c’è il 90 per cento degli americani là fuori che è nullatenente o quasi. Io non creo niente, io posseggo. E noi facciamo le regole: le notizie, le guerre, la pace, le carestie, le sommosse, il prezzo di uno spillo. Tiriamo fuori conigli dal cilindro mentre gli altri, seduti, si domandano come accidenti abbiamo fatto. Non sarai tanto ingenuo da credere che noi viviamo in una democrazia: vero, Buddy? È il libero mercato».
Già, lo stesso che vede il prezzo del petrolio schizzare senza alcuna motivazione e senza alcun legame con i fondamentali proprio dopo che Goldman ha previsto il prezzo a 75 dollari al barile e che in Somalia si tornano ad attaccare le piattaforme della Shell. Per non parlare del produttore Iran e dei suoi guai. È il libero mercato. E noi ne facciamo parte.