Le agenzie di stampa hanno riportato un’importante dichiarazione del Ministro per lo sviluppo economico, Claudio Scajola, circa l’opportunità di introdurre il quoziente familiare per ridurre il carico fiscale «a partire dalle famiglie». Resta da capire se le esigenze della crisi economico-finanziaria impedirebbero di dare attuazione al progetto, che rimarrebbe un “sogno” da riporre nel cassetto. Le politiche fiscali a favore della famiglia dovrebbero essere ancora una volta sacrificate in nome di altre e più elevate esigenze pubbliche? A tal proposito, alcuni aspetti della questione, su cui spesso si allignano malintesi e fraintendimenti, vanno chiariti.
Innanzitutto, che il fisco debba essere costruito dalle leggi rispettando il principio della capacità contributiva propria di ciascun soggetto tenuto all’obbligo tributario, è stabilito dalla Costituzione (art. 53). Ma ciò non significa che le imposte possano colpire i cittadini nelle loro disponibilità economiche come se essi vivessero isolati e separati l’uno dall’altro; ben diversamente, come a più riprese ha affermato la Corte costituzionale, le imposte devono essere disciplinate in modo ragionevole, cioè in modo da tener conto della corretta ponderazione delle situazioni concrete in cui ciascun individuo vive. In modo particolare, non possono non essere considerate le esigenze che discendono dagli obblighi familiari; anche perché è chiaro a tutti che chi dà vita ad una famiglia e ha figli a carico, si trova ad affrontare spese ulteriori. Sul punto, sempre la Corte costituzionale, sin dal 1987 (sent. n. 251), ha rilevato che il sistema della tassazione dei redditi che non tenga opportunamente conto dei carichi familiari, determina “effetti distorsivi” che è compito del legislatore correggere. Ma a tale correzione il legislatore nazionale, pur talora dicendosi disposto a farlo, non è mai effettivamente pervenuto. Né i cittadini, o meglio le famiglie, hanno strumenti giuridici che consentano di imporre “dal basso” un tale mutamento. Anche perché, ad esempio, i referendum in materia tributaria – che riscuoterebbero, c’è da presumere, ben altro successo rispetto a quelli che negli ultimi tempi sono stati scarsamente apprezzati dal corpo votante – sono vietati dalla Costituzione. Gli esiti appaiono quindi paradossali rispetto ad ogni livello di tassazione, sia per quanto riguarda i tributi dello Stato, che quelli spettanti agli enti territoriali; basti pensare che l’addizionale Irpef regionale è pagata nella medesima misura da un single e da un padre di famiglia che ha figli a carico.
Tutto ciò stride con quanto prescritto dalla nostra Costituzione. Essa impone alla Repubblica, e quindi all’intero sistema dei poteri pubblici, con una specifica disposizione – e dunque non si tratta di un mero suggerimento – di “agevolare con misure economiche e altre provvidenze la formazione della famiglia e l’adempimento dei compiti relativi, con particolare riguardo alle famiglie numerose” (art. 31, comma 1, della Costituzione). Tale principio, per la gran parte negletto nella storia repubblicana, ha trovato finalmente corretta attuazione nella recentissima legge sul federalismo fiscale (la legge n. 42 del 2001) che è stata approvata con largo consenso sia in seno al Parlamento, che da parte delle istituzioni delle autonomie territoriali. Più esattamente, tra i principi che dovranno orientare la stesura dei decreti legislativi che comporranno l’architettura del futuro sistema decentrato dell’imposizione fiscale, è stato posto espressamente quello secondo cui si dovrà procedere alla “individuazione di strumenti idonei a favorire la piena attuazione degli articoli 20, 30 e 31 della Costituzione, con riguardo ai diritti e alla formazione della famiglia e all’adempimento dei relativi compiti” (art. 2, comma 2, lett. gg).
Insomma, dopo più di sessant’anni dall’entrata in vigore della Repubblica, il favor familiae annunciato dalla Costituzione anche con riferimento alle politiche fiscali, dispone adesso di un principio legislativo che sarà vincolante nei confronti dei decreti legislativi che saranno emanati nei prossimi tempi. E se tali decreti non rispetteranno effettivamente il principio in questione, ci si potrà appellare alla Corte costituzionale ed ottenerne l’annullamento sul punto.
Tuttavia, occorrerà qualche tempo – e non certo pochi mesi – per vedere concretizzata la politica fiscale a favore della famiglia mediante il federalismo fiscale, anche perché la stessa legge prevede un periodo di transizione piuttosto lungo. Nel frattempo, si potrà innovare la disciplina vigente in modo da tradurre in realtà l’impegno proclamato nella Costituzione a favore della famiglia sul piano tributario? In particolare, il tema del quoziente familiare, istituto applicato con esiti assai positivi in altri ordinamenti (come, ad esempio, nella vicina Francia), appare e scompare a più riprese dal dibattito politico. Soprattutto si solleva in senso contrario l’esigenza di non incrementare ulteriormente il deficit e quindi il debito pubblico. Ma, come noto, il bilancio è il luogo ed il procedimento in cui si compongono le molteplici esigenze pubbliche contemporaneamente rilevanti. E quella di assicurare un fisco davvero giusto per la famiglia non è soltanto un’esigenza di rilievo costituzionale, ma è anche un’istanza apprezzabile allorché, nell’ambito di un’attenta politica dei redditi, si intenda dare nuova e necessaria spinta alla domanda aggregata, che non da poco tempo è depressa e adesso è fortemente arretrata. Allora spetta a tutti coloro che, a diverso titolo, partecipano ai processi decisionali assumersi la responsabilità di individuare il giusto equilibrio tra le distinte, ma senz’altro componibili esigenze qui in gioco. Senza dimenticare che la Costituzione, il processo di decentramento fiscale in corso, ed apprezzabili ragioni macroeconomiche spingono nel medesimo senso.