E’ solo l’ultimo caso in ordine di tempo. Descrivendo l’incerta sostenibilità del nostro sistema pensionistico, l’Ocse non ha segnalato aspetti nuovi che non fossero ampiamente presenti nel dibattito, da anni. 

L’incidenza della spesa pensionistica sul pil (pari al 14%) è molto superiore a quella media europea: il che, prima ancora di creare dei problemi di finanza pubblica (l’Ocse afferma che la spesa per pensioni assorbe il 30% del bilancio dello Stato), produce i ben noti effetti distorsivi sul complesso delle politiche sociali pubbliche, in quanto, a fronte di impegni sostanzialmente rigidi e in crescita nel campo della sanità, non è facile reperire le risorse per lo sviluppo di un moderno modello sociale, se i due terzi delle risorse destinate vengono assorbite dalle voci vecchiaia e superstiti (in sostanza dalle pensioni). 



La crisi ha messo in evidenza il vero punto debole del sistema di welfare italiano: l’inadeguatezza della rete degli ammortizzatori sociali, non solo in chiave di misure risarcitorie, ma anche di politiche attive del lavoro. Ebbene, recenti studi dimostrano che per migliorare la sola indennità di disoccupazione, estendendola in qualche forma ai settori del mondo del lavoro che ne sono privi o non riescono ad esercitare il diritto per insufficienza dei requisiti occorrerebbero almeno 3,6 miliardi aggiuntivi su base annua. 



Ciò premesso, i dati dell’Ocse hanno un solo torto: risalgono ad alcuni anni or sono (per l’esattezza al 2005). Quelli più recenti sono sicuramente peggiori, per tanti motivi molto semplici e facilmente intuibili. Quando nell’ormai lontano 1995 venne varata la riforma Dini le previsioni rassicuranti sulla futura sostenibilità del sistema reggevano su di un quadro macroeconomico (che teneva conto della crescita del pil, dell’occupazione, dell’inflazione, dell’immigrazione e di quant’altro) rivelatosi poi troppo ottimista. Grazie ad una combinazione virtuosa e prudente dei parametri della macroeconomia l’Italia presentò in Europa nel patto di convergenza verso la moneta unica (nel 1998) un grafico che riassumeva la situazione. 



Tutti in quei tempi facevano riferimento alla “gobba”, intendendo per essa la graduale evoluzione verso l’alto del grafico che riproduceva l’andamento della spesa pensionistica sul pil, nel primi 50 anni del nuovo secolo, il primo del terzo millennio. Partendo dal 2000 per arrivare al 2050, il grafico si impennava intorno al 2033 raggiungendo quasi il 17% sul pil, per poi ridiscendere velocemente verso la metà del secolo. Ebbene, oggi, a fronte della crisi, il dromedario (con una sola gobba) sta diventando un cammello (con due gobbe), dal momento che, secondo l’autorevole parere della Ragioneria generale dello Stato (espresso nel rapporto annuale sulle tendenze della spesa pensionistica e sanitaria), una più modesta impennata della spesa vi sarà anche nei prossimi anni, per poi inerpicarsi verso l’appuntamento del 2033. 

Alcuni giorni or sono le notizie dell’Inps sul dimezzamento delle pensioni di anzianità hanno dato la stura ai soliti commenti per cui, quando si vuole aumentare l’età pensionabile e si comincia a parlarne, come è doveroso in un sistema democratico dove le leggi si fanno apertis verbis, secondo i profeti dell’«abbiamo già dato» si dovrebbe stare nel più immobile dei silenzi, per non incentivare le fughe verso la pensione.

I dati dell’Inps dimostrano invece che sono state le regole di carattere obbligatorio (l’elevazione dell’età pensionabile attraverso il sistema di quote e scalini oltre al dimezzamento del numero delle c.d. finestre) nel regime dell’anzianità a determinare una svolta all’insegna di un rigore. La volontarietà incentivata appartiene invece a quell’esile sostanza di cui sono composti i sogli.