Un paese come l’Italia, con un rapporto debito pubblico/Pil che ormai si sta avvicinando al 116%, uno dei più alti del mondo, non può certo permettersi di usare una politica keynesiana molto spinta per cercare di rilanciare la domanda, i consumi e con essi l’economia che quest’anno segna una delle recessioni più severe della sua storia recente, con una crescita negativa del 5,5%, fra le peggiori di Eurolandia.



Silvio Berlusconi e il suo ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, non potevano varare piani simili a quelli del presidente Usa, Barack Obama, o anche solo a quello cui sta pensando in questi giorni il presidente francese Nicolas Sarkozy. Eppure qualcosa si doveva fare, perché i timidi segnali di una ripresa che si erano avvertiti fra aprile e maggio scorsi erano probabilmente dovuti solo a un’inevitabile ricostituzione delle scorte, e ormai non hanno lasciato più tracce.



Mentre sono altri i segnali che ora le antenne degli economisti intercettano: a ottobre-novembre molte piccole e medie imprese potrebbero chiudere i battenti, semplicemente perché non riescono più a produrre, perché il calo dei consumi le ha stese al tappeto o perché la concorrenza internazionale, che ha saputo ristrutturarsi prima, ha portato via quote di mercato.

Di fronte a un simile scenario autunnale, con possibili ripercussioni persino sulla tenuta sociale del Paese, il governo doveva fare qualcosa: non basta più attaccare i catastrofismi, le Cassandre della carta stampata o della politica. Bisogna agire concretamente perché sono decine le fabbriche che rischiano davvero di tirare giù la saracinesca. E il governo ha agito. Tutte le misure adottate e annunciate venerdì scorso vanno nella direzione giusta, rappresentano un concreto aiuto al sistema produttivo nazionale in affanno e un po’ di ossigeno lo portano anche alle famiglie già colpite o che rischiano di essere colpite in un futuro assai prossimo dalla crisi.



Vanno in questo senso la detassazione del 50% degli utili che vengono reinvestiti in macchinari, la riduzione dei costi dell’energia, gli incentivi ai disoccupati e ai cassintegrati che decidono di avviare un’attività in proprio, i bonus alle aziende che reintegrano i cassi integrati e così via. Sono tutte indicazioni con un significato preciso: il governo ha smesso di dire che in Italia la crisi finanziaria ha prodotto conseguenze meno gravi rispetto agli altri paesi. Non è così: quel meno 5,5% del Pil per il 2009 lo dimostra, anche da noi la crisi morde.

Quindi è dell’economia reale che bisogna preoccuparsi, bisogna evitare di perdere una parte del nostro apparato industriale, manifatturiero, perché una volta perduto sarà difficile ricostituirlo; lo spazio che lascerà libero lo occuperà in un nanosecondo la concorrenza internazionale.

Molti, soprattutto dall’opposizione, hanno detto che queste misure sono insufficienti, poco più di un pannicello caldo, mentre la gravità della situazione richiederebbe misure profonde, riforme strutturali. È certamente vero che se fosse stato possibile fare di più sarebbe stato meglio, ma le risorse sono quelle che sono e il bilancio dello Stato non permette operazioni di maggior respiro.

Quanto alle riforme strutturali, sono indiscutibilmente necessarie. E lo sono non da oggi, ma da decenni. E non sono in antitesi con le misure di urgenza varate venerdì dal consiglio dei ministri. Decise queste si può senz’altro avviare il cammino di quelle riforme strutturali che servono e che vanno dalla previdenza, al mercato del lavoro, dalla differenziazione delle fonti energetiche alle infrastrutture, solo per fare alcuni esempi. Di questi temi la classe politica, maggioranza e opposizione, potrebbe occuparsi subito, se lo vuole. Dedicando un po’ meno tempo a Noemi, call girls e simili.