Il Re è nudo. Nonostante i disperati tentativi per mantenere la segretezza, alla fine della scorsa settimana la Fsa ha dovuto rendere noti i criteri operativi con cui sono stati condotti gli stress test sulla tenuta delle banche britanniche in caso di peggioramento del clima finanziario globale.
Come si pensava, i criteri adottati erano ben lontani dalla rigidità annunciata: tutte le banche erano riuscite a mantenere il Core Tier 1 sopra livello del 4%, peccato che le condizioni applicate erano pressocché quelle attuali – al netto del mancato crollo del 40% del mercato immobiliare – e la stessa Fsa è stata costretta ad ammettere che la tenuta di giganti come Barclays, ad esempio, era garantita -in prospettiva – dalla capacità di capitalizzare grazie alla vendita di assets fruttuosi.
Insomma, una farsa più che uno stress test. E infatti Barclays ha già messo sul mercato il suo gioiello, ovvero la divisione Bgi, che sembra finirà nelle mani del fondo speculativo BlackRock per circa 4 miliardi di dollari. Ma ieri la stessa Barclays perdeva il 15% in Borsa dopo l’ufficializzazione che il “cavaliere bianco” di Abu Dhabi che lo scorso anno evitò alla banca di venire in parte nazionalizzata iniettando due miliardi di sterline se ne sta scappando dopo aver guadagnato un bel gruzzoletto, avendo comprato a 153 pence per azione e venduto a 316.25 pence, comunque uno sconto del 16% rispetto alla chiusura di lunedì (come dire, venghino signori venghino che noi sul Titanic ci siamo già stati troppo): prendi i soldi e scappa in versione araba, grazie alla quella clausola suicida accettata da Barclays delle Mandatorily Convertible Notes che oggi hanno consentito all’International Petroleum Investment Company di scaricare qualcosa come 3,5 miliardi in azioni.
Quindi, delle due l’una: o Barclays vende e in fretta Bgi oppure la vendetta di Lehman Brothers di cui parlavano qualche settimana fa si concretizzerà davvero sotto forma di obbligo di una disperata rights issue nella speranza di stare a galla. Altrimenti toccherà allo Stato intervenire, ma salvare Barclays dal suo grado di leverage significa impiegare l’intero Pil britannico: la danza dei cds è
già cominciata. Ma in generale ieri tutti i titoli bancari europei hanno perso e non credete alla favola delle prese di beneficio dopo i rialzi dei giorni scorsi per giustificare la caduta.
Come ricordava Hans-Juergen Delp, capo della divisione strategica di Commerzbank a Francoforte, «la lastra di ghiaccio è ancora molto sottile e ci sono ottime possibilità che il mercato continui ad andare giù». Ora la domanda da porsi è: quali titoli sanno nuotare in caso la sottile patina di ghiaccio di rompa? Ben pochi. Certamente non le banche tedesche con i loro 800 miliardi di titoli tossici in pancia. Non certo quelle francesi, né tanto meno quelle austriache esposte per il 70% del Pil del paese verso il traballante Est europeo.
La terza ondata, quella tanto temuta dalla Bank of England, che si è preparata al peggio con un’iniezione in un due tranche di 75 miliardi di sterline cash, sta per arrivare, i segnali ci sono tutti anche senza ricorrere all’Hindenburg Omen. Non a caso, nel silenzio generale di quei ministri delle Finanze che lo scorso anno sbraitavano come aquile, è ripartita la speculazione sul petrolio, protagonista di un rialzo completamente immotivato e svincolato dai fondamentali.
Si va a investire, almeno così fanno i grandi hedge fund, dove il margine di guadagno è più alto: cds, sperando che qualcuno tiri le cuoia con la prossima ondata di crisi bancarie e commodities, in special modo metalli e petrolio. Non è un caso d’altronde che sia Cina che Brasile, nonostante l’imprevedibile e drastico crollo del prezzo del greggio registrato negli ultimi dieci mesi dai massimi del luglio scorso, non abbiamo cambiato strategia: gli investimenti nel settore sono rimasti invariati mentre addirittura Chevron ha aumentato gli investimenti.
Capite da soli che di fronte ai Pil e alla produzione industriale di tutti i maggiori paesi che crollano e di fronte a dati di crescita da mani nei capelli, scommettere sul petrolio rappresenta un azzardo. Oppure una mossa molto furba, fatta da chi sa come muoversi. Il dato, confermato da Ernst&Young, parla chiaro: come apparve strano l’intervento saudita per fermare la folla corsa del
greggio nell’estate del 2008 (147 dollari al barile) così appare molto strana sia la crescita immotivata da 33 dollari ai 67 attuali quanto l’ulteriore intervento saudita che parlava di stabilizzazione nel medio termine tra i 45 e i 60 dollari al barile.
Su quelle oscillazioni ci sono scommesse aperte, tante, tantissime. Le chiamano opzioni, sono soltanto segnali che i player veri mandano ai governi e ai mercati. Nonostante la crisi, chi detta le regole sono sempre gli stessi. Ma oggi, stranamente, nessun governante strepita. L’effetto Obama è stato uno stabilizzatore e un narcotizzante planetario incredibile. Lobby e hedge funds ringraziano, noi attendiamo la terza ondata.