Francamente poco mi importa che Silvio Berlusconi abbia o meno utilizzato l’espressione “tappare la bocca” riferendosi ai cosiddetti “pessimisti” riguardo le sorti della crisi in atto: io sono uno di questi e come vedete sto scrivendo ancora senza cambiare idea, quindi la pletora di penitenti pronti a evocare la censura sudamericana è meglio che taccia e pensi a lavorare.
Detto questo, non è colpa mia se nell’edizione di giugno di Forbes Robert Lenzner, national editor, ebbe l’ardire di scrivere che «il mercato dell’ordo è terminato il 9 marzo e finalmente intravediamo la fine della peggiore recessione dal 1930». Pochi giorni e i mercati sono crollati insieme alle stime di ripresa del Fmi: anche quelli molto bravi, a volte sbagliano. Che dire, d’altronde, di quanto vaticinato nel maggio 1930 nientemeno che dalla Harvard Economic Society: «Il mercato azionario sta finalmente offrendoci dei segnali di sostanziale ripresa». Poche settimane e l’azionario crollò facendo ulteriormente peggiorare l’intero quadro economico. Anche in quel caso, ci si sbagliò.
Non hanno sbagliato, invece, quelli della Bundesbank a non rendere noti i risultati degli stress test compiuti sugli istituti di credito tedeschi: per utilizzare le parole di Wolfgang Munchau su Financial Times, «non vorrebbero dover dimostrare al mondo che il sistema bancario è insolvente». Già, insolvente: ricordate l’articolo dedicato alle banche zombie, bene siamo arrivati alla resa dei conti e con le elezioni politiche a settembre la Germania sta per affrontare la sfida più seria dopo la riunificazione.
Il problema, però, è generale e lo dicono chiaro sia alla Capital Economics che alla Standard Chartered per bocca di Gerrad Lyons: «Il rischio per l’eurozona è quello di non aver ancora visto il peggio della crisi». Insomma, siamo a metà strada ma con due grosse debolezze rispetto agli Usa: primo, l’aver scaricato finora soltanto 280 miliardi di cosiddetti bad loans e quasi nulla di titoli tossici, tutti ben occultati negli assets. Secondo, l’abuso di pratiche aggressive di accounting atte proprio all’occultamento nei bilanci delle negatività e quindi il travisamento delle reale condizioni di salute delle banche.
Inoltre, le banche europee sono sottocapitalizzate, la stretta del prestito si fa sempre più seria nonostante la Bce continui a stampare denaro e pompare liquidità e le figure macro vedono lo scenario indebolirsi di giorno in giorno. Inoltre, a giustificare il pessimismo ora ci si mette anche un altro dato, spaventoso soprattutto per gli Usa: la crisi della Cina, il cui miracolo starebbe per rivelarsi un brutto scherzo per gli investitori, stando al giudizio di Albert Edwards di Societe Generale.
Pechino mente, il dato di crescita del 6,1% nel primo trimestre di quest’anno è semplicemente irrealistico se posto in paragone con il calo dell’utilizzo di energia elettrica del 3,2% registrato a maggio e con quello delle spedizioni navali, calate del 26% e quindi moltiplicatore della crisi dell’export. Inoltre, l’ennesima massa di prestito da 1000 miliardi di dollari emessa nel dicembre scorso sta ingolfando il sistema bancario, incapace di gestire quel quantitativo di denaro che infatti viene stoccato come reserve a Shanghai o utilizzato a scopo puramente assistenziale per mantenere artificialmente in vita il settore della costruzioni, devastato dalla crisi.
Ma non è tutto, il peggio è che la società di rating Fitch si è messa a fare le pulci alla Cina in questo periodo e il quadro che ne è uscito è stato tutt’altro che consolante. «Le future perdite subordinate allo stimolo messo in atto dalle autorità governative potrebbero presentare entità maggiori del previsto e non è affatto chiaro come i governi locali e nazionali saranno in grado di, o vorranno, intervenire». Linguaggio da agenzia di rating che si traduce però nel downgrading della Cina nell’indicatore “macro-prudential risk” da categoria 1 (sicura) a categoria 3 (dove giace, per capirci, la fallita Islanda).
Già, queste sono le previsioni. Avvalorate da un dato spaventoso presentato da Michael Pettis dell’Università di Pechino: «Se correttamente calcolato, senza maneggi politici o di propaganda, il rapporto debito/Pil della Cina sta ormai viaggiando a livelli del 50-70 per cento». Le banche, poi, non stanno meglio: l’esposizione ai debiti corporate ha toccato i 4.200 miliardi di dollari, una cifra che sale a colpi del 30% alla volta a fronte di una contrazione dei profitti del 35%.
Il cosiddetto roll-over risk, il rischio legato al pagamento o alla rinegoziazione di un debito, sta salendo a dismisura. E il problema è che in molti vedevano la Cina come il motore che poteva far ripartire l’economia mondiale e, soprattutto, garantire un mercato del debito sufficiente a mantenere artificialmente in vita anche un sistema disfunzionale come quello scelto dalla Fed per deprezzare il dollaro e spalmare nei quattro continenti il debito Usa sotto forma di bond del Treasury.
Questa politica e questa speranza stanno per svanire: il brutto è che al momento nessuno ha ricette alternative. E la crisi “a tre ondate contemporanee” si avvicina, i primi di settembre saranno i giorni topici della terza onda iniziata a metà giugno: non spaventatevi se qualcuno sarà tentato di chiudere forzatamente le banche per qualche giorno o, peggio, sospendere le contrattazioni in Borsa. Sarà il minore dei mali.
P.S.: «Tutto questo non deve sorprendere, visto il rapido deterioramento delle finanze pubbliche». Queste le parole usate ieri a Londra da Niall Cameron, capo analista alla Markit, nel presentare i quattro nuovi indici su cui si potranno trattare i cds delle nazioni a rischio di default sul debito. Già, si scommette su chi finirà per primo sul patibolo sperando di essere in fondo alla lista del boia. I due indici che alla Markit pensano attrarranno il maggior numero di investitori sono l’iTraxx SovX Western Europe che traccia i cds di 15 nazioni dell’Europa occidentale – comprese Francia, Germania, Regno Unito e Italia – e il Markit iTraxx Ceemea che invece segue l’andamento di Europa dell’Est, Medio Oriente e Africa. Gli altri due indici seguiranno i valori in punti base delle sette nazioni più industrializzate e un bouquet misto di Europa, Asia, America Latina, Medio Oriente, Africa e Nord America.
Insomma, un modo per speculare ma anche per proteggersi dal rischio di default sul debito in tempi di spesa pubblica incontrollata, evitando di scommettere sul cds di un singolo paese ma facendolo su un portafoglio più composito. Se si arriva a questo punto, vuol dire che siamo davvero messi male.