Si è conclusa da poco la quinta edizione di EIRE (Expo Italia Real Estate, dal 9 al 12 giugno scorsi in Fiera Milano), l’evento internazionale dedicato al mercato del real estate del Mediterraneo e dei Paesi emergenti. Un’edizione segnata dalla congiuntura economica internazionale, che al di là dei buoni risultati quantitativi (metri quadri venduti, espositori, operatori presenti), ha avuto il suo maggiore successo nel clima positivo che si è instaurato tra gli operatori durante i giorni di fiera.



Un giudizio positivo che ci è giunto sia dai principali operatori italiani che da quelli internazionali presenti in fiera, che hanno testimoniato come a fronte di una situazione di stasi e di paura in cui vige il mercato, un evento d’incontro e di confronto come questa manifestazione può essere una vera opportunità di rilancio, prima di tutto umano.



I mesi che hanno succeduto la crisi economica internazionale sono stati per tutti, e soprattutto per chi fa impresa, un’esperienza dura e difficoltosa. In particolare per chi la crisi l’ha vissuta in prima persona, vedendone arrivare gli effetti direttamente sulla propria attività. Ancor prima che economici e finanziari, i principali effetti che si sono percepiti sono stati la paura di alcuni imprenditori, l’indecisione, l’instabilità e il timore di fare nuovi investimenti e quindi la riduzione, a torto a o ragione, delle spese. E questo è valso sia per le piccole e medie imprese, sia per la multinazionali.



Di fronte a una tale situazione, noi stessi ci siamo smarriti. Le nostre previsioni, i nostri calcoli non tornavano più, sono andati in crisi, ed è iniziato a insinuarsi il dubbio sul vero valore del nostro lavoro, su quanto ognuno di noi vale e su quanto è capace. Questo smarrimento pone la fondamentale domanda su quale sia davvero il parametro di giudizio con cui ognuno di noi si valuta o crede di essere valutato. Se non si ha chiaro questo parametro non si riesce ad avere stima di se stessi, e una persona senza stima di sé va in crisi.

La società in cui viviamo, ma molti di noi ne sono anche personalmente convinti, ci indica che questo parametro è legato a quanto siamo in grado di portare a casa come rendita e guadagno della nostra impresa o del nostro lavoro in generale. La valutazione di noi stessi è in sostanza legata solamente al profitto che siamo in grado di ottenere. Questa disastrosa posizione antropologica è proprio la vera causa della crisi: l’uomo è ciò che rende. Così come per l’attività economica il suo motore è il profitto, il guadagno. Viviamo in una società che crede in questo tipo di valutazione: tutta l’economia contemporanea è basata su quanto un’azienda può fatturare o un’attività in generale può produrre.

Se si parte da questa posizione, l’uso estremo degli strumenti finanziari che si è verificato in gran parte dei settori industriali, real estate in primis, è la conseguenza naturale: se lo scopo è il profitto, la finanza ha permesso di raggiungerlo in tempi brevissimi e in grandi quantità, alterando i valori economici reali e portando all’eccesso la creazione di strumenti sempre più sofisticati in grado di moltiplicare rendite virtuali, perdendo totalmente il contatto con l’economia reale.

Al di là del fatto che questo eccesso ha poi causato la crisi economica, e dunque la realtà stessa ha fatto crollare il mito di questa economia virtuale, credere che l’uomo sia ciò che sa rendere è una posizione che fa fuori elementi fondamentali del lavoro e della vita in generale: il primo elemento è la persona, che diventa mero strumento di profitto, e quindi non più considerata nella sua totalità. Noi stessi, immersi in una società così costruita, ci convinciamo che questo sia il vero parametro di giudizio, eliminando parte della nostra umanità.

Il secondo elemento è il tempo, che ha acquistato in questi anni un valore distorto: non si sa più aspettare perché bisogna riuscire a guadagnare tutto e subito e di più ancora. Così il tempo è stressato da questo obiettivo, manipolato nella convinzione che le cose vadano come programmate da me, secondo i miei calcoli. In questo modo anche la gestione del tempo e delle proprie giornate è stravolta, a discapito del giusto equilibrio tra tempo dedicato al lavoro e quello invece dedicato al resto, di cui la vita è composta.

È giusto chiedersi a questo punto come interrompere questa spirale negativa, come uscire da questa crisi che ancor prima che economica, è una crisi della persona. Di certo la soluzione non può essere solo e per prima cosa un’analisi, su cui esperti di tutto il mondo dedicano il proprio tempo per capire dove sta l’errore e dove la soluzione per far ripartire l’economia. E neanche può esserlo un discorso, seppur giusto e carico di ragioni.

Ciò che può muovere e dare speranza è uno sguardo nuovo su di sé e sugli altri, una posizione umana diversa con alla base la coscienza che l’uomo non è riducibile al proprio lavoro. Il lavoro è espressione di un’io in azione che racchiude in sé un’esigenza e un desiderio di compimento che va molto oltre a quanto il lavoro possa dargli. Nessuno può essere riducibile alla propria riuscita o meno nel lavoro, sia egli imprenditore, manager, grande finanziere o semplice impiegato.

Nel momento in cui ci sono persone e imprenditori che sono in grado di portare questo giudizio, per loro stessi e per tutti quelli che lavorano con loro cambia il modo di essere al lavoro e di affrontare la realtà. Essa non diventa più un ricatto su quanto siamo in grado di manipolarla ai nostri scopi, ma la positiva opportunità di esprimere tutta la propria umanità. Il profitto torna a essere un indicatore importante della bontà del proprio operato, per suggerire nuovi investimenti o cambiamenti di rotta, ma non è più il criterio ultimo di giudizio, che diventa invece il compimento del proprio bisogno di felicità.

Il lavoro diventa anche parte di un uso ragionevole del proprio tempo, che acquista un valore diverso, orientato ai bisogni autentici di realizzazione di sé. Questo cambiamento è la risposta semplice ma profonda al problema della crisi.

La scorsa edizione di EIRE ha, per quanto le attiene, testimoniato questo fatto nel momento in cui noi organizzatori per primi ci siamo posti con a cuore prima ancora che il risultato “quantitativo” – che la realtà ci diceva essere inferiore alle aspettative – il rapporto con i nostri espositori e con gli operatori, mettendo a tema questa posizione umana e la possibilità di una ripartenza a partire dalla ricerca del bene comune nel fare impresa.