Al vivace dibattito in corso su queste pagine e inerente gli sviluppi della crisi, non sembra superfluo aggiungere un interrogativo: cosa rende un sistema economico davvero pertinente al bisogno del suo principale protagonista, l’uomo? Non si può negare, infatti, che uno dei motivi all’origine della crisi sia stato l’eccessivo peso dato a meccanismi finanziari o redistributivi della ricchezza prodotta, e nel contempo la dimenticanza della mossa umana che genera un’attività economica. 



Se, come dice Adam Smith, non è la benevolenza del birraio a produrre la ricchezza, occorre ricordare che lo stesso autore fa risalire il valore di scambio di un bene al suo valore d’uso, alla sua reale utilità. E per intuire la necessità di un prodotto per qualcuno, anche oggi, non basta un manager che ripeta in modo schematico determinate procedure. Occorre un imprenditore che intuisca i bisogni d’uso di un determinato pubblico e metta in moto la sua capacità creativa, di  trasformazione della realtà, il suo desiderio di costruire, di migliorare la propria condizione e quella della sua famiglia, del suo territorio. E questo, contrariamente a una certa letteratura sociologico-economica, è direttamente proporzionale a quanto egli vive la sua natura profonda, fatta di desiderio di giustizia, verità, bellezza – come ricordava spesso Luigi Giussani -, e a quanto questo desiderio è educato nelle realtà sociali, territoriali, ideali, a cui appartiene. Ciò non significa negare il ruolo determinante del profitto, indicatore indispensabile di ogni attività economica. Significa mettere in rilievo la ragione che sta alla base della creazione di ricchezza, senza cui ogni descrizione del sistema economico è un’interpretazione di come funziona ciò che c’è, ma non spiega perché si è generato.



Rileggendo la storia di imprese divenute poi colossi multinazionali, leggendo le vicende di tantissime piccole e medie imprese di successo, si vede come l’uomo è la risorsa dell’impresa. Per parlare di casa nostra, se un profitto svicolato dal desiderio di lavorare e costruire dominasse l’azione, perché mai nell’attuale crisi i piccoli e medi imprenditori italiani, che producono il 70% del fatturato e danno lavoro all’80% degli occupati italiani, dovrebbero resistere alla tentazione di vendere l’impresa, tenere i soldi in famiglia senza reinvestirli e vivere di rendita?

Come insegnano i grandi autori dell’economia aziendale italiana, un’impresa, soprattutto piccola e media, che voglia reggere nel lungo periodo deve essere mossa da un insieme di valori e ideali legati alla valorizzazione dei suoi lavoratori considerati come persone. Per questo, dalla recente indagine Sussidiarietà e… piccole e medie imprese (Mondadori Università, Milano, 2009) è emerso come i piccoli e medi imprenditori siano nella loro maggioranza spinti, oltre che dalla ricerca del profitto, anche dal desiderio di creare posti di lavoro e di rendere l’impresa, anche a proprie spese, un luogo dove i lavoratori stiano bene. E per ciò che concerne la concorrenza prevale sulla competizione darwiniana di tipo neoclassico una tendenza alla condivisione con i concorrenti dell’attività di ricerca e sviluppo, di internazionalizzazione, di strategia per migliorare la competitività. Chi pensa che queste siano divagazioni poetiche rifletta su come la fortuna inaspettata dei nostri distretti nasca da questa strana concezione di concorrenza creativa e collaborativa fra imprese.



In definitiva, una possibile lezione per il futuro sta nella ripresa della teoria del capitale umano, quasi dimenticata nell’ubriacatura per le teorie finanziarie, come strumento per promuovere nel mondo dell’impresa quella attenzione alla persona nella sua globalità e, a livello macroeconomico, quello sviluppo che viene dal basso, “sussidiario”, sottolineati dalla Dottrina Sociale della Chiesa. L’auspicio è che si comprenda come l’educazione a vivere profondamente le proprie domande umane attraverso criteri ideali è ben più determinante e comprensiva anche della semplice istruzione, dell’etica applicata all’economia o di un profitto fine a se stesso, nella generazione di capacità imprenditoriale, di lavoro e di ricchezza dei popoli e degli Stati.

Tratto da Il Sole 24 Ore del 10 luglio 2009