L’ironia della sorte ha voluto che nella settimana delle grandi manovre per definire la “moratoria” nei rapporti tra banca ed impresa sia esploso, a sorpresa, il dossier Risanamento. Ovvero la decisione della Procura della Repubblica di Milano di sottoporre al Tribunale di Milano la richiesta di fallimento della holding immobiliare di Luigi Zunino, ritenendo insufficiente, ai fini di garantire la continuità aziendale, il piano di salvataggio finora elaborato dalle banche creditrici.
È iniziata così una corsa contro il tempo per rivedere in meglio, in vista dell’udienza del prossimo 29 luglio, il programma per risanare il gruppo su cui gravano circa 2,9 miliardi di debiti (di cui 2,6 fanno capo alle banche). Altrimenti, se prevarrà la tesi dei periti della procura, per cui “già nel 2008 il bilancio non poteva essere redatto secondo i principi di continuità aziendale” si apriranno scenari nuovi, imprevedibili ma senz’altro foschi. E non solo perché da Risanamento passano alcuni dei progetti urbanistici più rilevanti dell’area milanese. Ma il caso dell’immobiliare di Zunino, semmai, rischia di rappresentare la punta dell’iceberg della relazione, estremamente delicata, dei rapporti tra banca ed impresa.
Al di là di quel che deciderà il tribunale, infatti, non c’è alcun dubbio che Risanamento, fino alla scorsa settimana trattata in Borsa ed oggetto, a quel che si è letto sui giornali, di trattative di cessione più o meno serie con compratori arabi, navigava da tempo in pessime acque. E da tempo era in atto una “moratoria di fatto” degli interessi su un importo di 1,1 miliardi, più “rilevanti inadempimenti per canoni di leasing”. Eppure pare che alcune banche creditrici non abbiano nemmeno inserito questi crediti tra le partite incagliate, ovvero di difficile o dubbia esigibilità: dal 29 luglio, in caso di fallimento, quei crediti sulla carta ancora perfettamente sani (ovvero non protetti da alcun accantonamento cautelativo) passerebbero automaticamente a sofferenza, rotolando come un macigno sui conti del sistema già dal terzo trimestre.
Ma con forte imbarazzo anche per le trimestrali di metà anno. Soprattutto perché, come è ovvio, Risanamento non è certo un caso isolato anche se, per alcuni versi, è senz’altro un caso di scuola: come spiegare alle migliaia e migliaia di imprenditori a capo delle pmi che in questi mesi hanno patito sulla propria pelle il “credit crunch” che ancora nell’aprile del 2008 le banche hanno trovato una linea di credito da 150 milioni (più un “bis” da 75 milioni a novembre) per un’impresa che di garanzie ne offriva pochine? Come chieder la comprensione dei Brambilla di turno, che spesso hanno rinunciato a darsi uno stipendio purchessia, se ci si ricorda che per il 2008 lo stesso Luigi Zunino si era corrisposto un bonus di 4 milioni (poi ridotto a 900 mila euro circa per le rimostranze dei creditori bancari)?
È questa la cornice che rende impellente un accordo di sistema sulla moratoria dei crediti. A richiederlo sono le imprese, ma l’intesa non è meno necessaria per il sistema del credito.
Per evitare di essere travolti da migliaia di piccole e grandi Risanamento (sperando che l’azienda resti comunque in bonis) sarà necessario offrire una mano alle aziende, riscadenziando gli interessi sui finanziamenti. In questo modo, tra l’altro, si eviterà che il peso della crisi ricada solo sulle spalle di chi può ancora pagare (cioè le imprese più sane); perché sulle altre, oltre ad accumulare interessi virtuali, spesso le banche non possono fare granché. Almeno verso i pesci grossi (a nessuno conviene un fallimento che si traduce in sofferenze…) perché sui piccoli, al contrario, continua ad esercitarsi la minaccia del rientro immediato per salvare il salvabile.
In cambio di questo sacrificio, le banche chiedono un aiuto fiscale sul fronte delle sofferenze. Con alcune ragioni:
A) la fiscalità dei concorrenti, in Europa ed in America, su questo punto è più generosa;
B) in questo modo si favorirà la trasparenza;
C) i conti delle banche commerciali, al secondo anno di crisi dell’economia soffrono e le banche, che finora non hanno richiesto aiuti di Stato (a differenza degli istituti inglesi, tedeschi piuttosto che Usa), possono entrare in area di rischio senza un’azione preventiva;
D) il mondo del credito, sotto tiro, dovrà (o dovrebbe) rinunciare ad alcune posizioni di rendita più o meno odiose, a partire dalla commissione di massimo scoperto. Ma questo obbligherà le banche a rinunciare ad una parte cospicua dei loro profitti;
E) queste “calamità” coincidono in un momento di bassi spread sui tassi (cosa che riduce i margini di guadagno).
Insomma, la manovra di Giulio Tremonti può contare su un grande atout: lo stato di necessità di tutti gli attori della scena nazionale. Non va dimenticato, tra l’altro, che conti del Dpef alla mano, fatto 100 il valore del pil italiano nel 2007, l’Italia risalirà a quota 97,63 solo a fine 2011 a patto che nel 2010 si riprenda a crescere e nel 2011 l’economia salga del 2% (cosa che non è mai successa in questo millennio).
Bisogna muoversi, perciò, in un corridoio stretto, perché in un’Italia destinata ad essere più povera, mancano le risorse. Di qui, l’urgenza dello “scudo”. Il ministro conta che l’operazione, in passato pensata per salvare i conti pubblici, stavolta serva a far affluire nelle imprese il capitale necessario. A questo proposito arriva, opportuna, la proposta di incentivare gli aumenti di capitale dal punto di vista fiscale. In parallelo, aziende più solide sul piano patrimoniale permetteranno di ridurre la “rischiosità” dei clienti del sistema bancario e di abbassare così la “febbre” della qualità dei crediti del sistema.
È una manovra complessa, perciò difficile. Ma che fa leva sull’unico vero tesoro nazionale, cioè il risparmio (in Italia e fuori) per attivare un circuito virtuoso spegnendo i possibili incendi che possono rendere incandescente l’estate finanziaria italiana. Per questo motivo l’allarme che suona da Risanamento è così significativo. E chissà che quel nome, alla fine, sia di buon augurio.