È ancora difficile, apparentemente, a due anni dalla morte, valutare l’eredità di Vincenzo Maranghi, cioè dell’ultimo amministratore delegato dinastico di Mediobanca. Fu il fondatore della banca d’affari, Enrico Cuccia, a designare Maranghi in quel ruolo di nuovo grande playmaker della finanza italiana e quindi l’aggettivo dinastico si adatta perfettamente. Ma Cuccia probabilmente intuiva che Maranghi avrebbe lasciato una Mediobanca solidissima (fatto che è avvenuto), ma tuttavia esposta ormai irreparabilmente al vento del “nuovismo”, alla nouvelle vague della filosofia della banca che si era lentamente trasformata in un’impresa che doveva realizzare valore aggiunto.
La vecchia Mediobanca, pur con tutti i suoi difetti, era stata il punto di riferimento dello sviluppo italiano, affrontando la difficile realtà di un Paese disintegrato dalla guerra con una scuola un po’ elitaria, ma improntata alla prudenza e ai piani lunghi, alla discrezione, a un understatement che alimentava scenari fanta-politici-finanziari e i consueti retroscena da complotto laico-massonico che sono un classico della subcultura mediatica italiana.
Arrivato a 80 anni quasi sconosciuto all’opinione pubblica, anche Enrico Cuccia, prima di morire, dovette fare i conti con il “Gabibbo” televisivo che lo interrogava in piazza della Scala (invano) mentre raggiungeva a piedi la vecchia sede di via Filodrammatici. Dovette fare i conti pure con le schematizzazioni di Beppe Grillo, che in uno dei suoi show comico-politici, lo dipinse come quello che metteva in fila i padroni. Il nuovo guru della sedicente sinistra italiana aveva letto la prima biografia di Cuccia, quella scritta da Fabio Tamburini, “Un siciliano a Milano”, e ne aveva tratto subito giudizi ultimativi.
Sia Cuccia che il delfino Maranghi non diedero molto peso a questa pubblicità che li aveva improvvisamente “investiti”. Continuarono fino alla fine del loro lavoro e della loro vita a ignorare quegli analisti improvvisatori della realtà finanziaria e politica italiana. Non risposero mai, secondo loro costume e consuetudine. In più, dopo la svolta del 1992, avevano ben altro da pensare, a cominciare dagli assetti interni a Mediobanca e al nuovo rampantismo dei banchieri italiani.
L’accusa più severa e più radicata che arrivava a Mediobanca era quella di essere soprattutto una “stanza di compensazione” del capitalismo italiano, cioè l’artefice di tutti i grandi affari, una sorta di “salotto esclusivo e in parte dispotico”. Da qui la schematizzazione di eleggere Cuccia a baricentro dei “grandi poteri” e a “medico dei grandi imprenditori o degli esponenti delle grandi famiglie”. In realtà, prima Cuccia, e poi Maranghi, “facevano le nozze con i fichi secchi”, oppure, realisticamente, cercavano di fare il “fuoco con la legna che avevano a disposizione”. La loro grande competenza e capacità aveva assicurato una ripresa all’industria italiana e poi una tenuta sostanziale del capitalismo italiano, ma nello stesso tempo cercavano di leggere bene lo sviluppo economico per valorizzare quello che di nuovo e di reale si affacciava nel Paese.
Ci sono documenti ben precisi su cui lavorare per vedere il percorso di Cuccia e di Maranghi, ma stranamente nessuno li legge e o li ricorda con attenzione. Eppure già il 30 ottobre del 1978 Cuccia aveva dato una sonora sveglia, nella sua relazione annuale, ai grandi imprenditori pubblici e privati italiani: «È inutile recriminare; ma non si può fare a meno di chiedersi se, nel caso in cui non fosse stato facilitato l’abbondante flusso di finanziamenti agevolati a taluni imprenditori – privati e pubblici – nell’illusione che non la bontà degli investimenti e la oculatezza della gestione avrebbero assicurato il successo dell’iniziativa, bensì il ricorso a ogni mezzo per raggiungere il gigantismo delle imprese e con il gigantismo, non si sa come e perché, la loro fortuna, c’è da chiedersi, dicevamo, se, in tal caso, non avremmo avuto aziende certamente più modeste, ma molto più sane, con una crescita fondata almeno in parte sull’autofinanziamento e non soltanto sui debiti, capacità produttive più aderenti alle effettive dimensioni dei mercati e, soprattutto, minori interferenze politiche nella vita economica del Paese».
Era una strigliata durissima, in realtà, che anticipava la ricerca suggerita da Cuccia al suo Ufficio Studi: quella di studiare e censire il nuovo tessuto produttivo italiano che portò alla scoperta dell’eccellenza del “quarto capitalismo”, cioè della nuova rete di medie aziende con grande innovazione e capacità di movimento che avrebbero sostenuto la concorrenza sul mercato globale che si stava lentamente avvicinando.
Ma nello stesso tempo quella scrupolosa ricerca poneva a Mediobanca nuove strade da battere e da intraprendere. Quando nel 1993 si fece la riforma bancaria e la banca divenne “universale”, cioè una sorta di “mostro” secondo Roberto Mazzotta, i grandi soci interni di Mediobanca cominciarono a scalpitare. Se tutto potevano fare il merchant banking, che funzione poteva ancora avere Mediobanca? In più la riforma bancaria si trascinava dietro regole che hanno poi contribuito al tracollo mondiale del 2007: creare valore, vendere prodotti innovativi di ogni tipo (derivati, credit swap) e meccanismi di stock option che mettevano in discussione il vecchio legame tra manager e banche. Vincenzo Maranghi si trovò di fronte a questo “fuoco di fila” che cercò di contenere fino alla fine del 2002, per poi soccombere nella primavera del 2003.
Maranghi voleva una nuovo assetto di Mediobanca, si opponeva con disprezzo alle stock option e ai derivati. Previde, un anno prima di morire, la grave crisi finanziaria mondiale, proprio perché tutta la filosofia di banca era completamente ribaltata e forse “aveva perduto letteralmente la testa”. Uscì invece lui a testa alta da Mediobanca, senza chiedere un euro in più della sue competenze e difendendo la sua visione di banca. Rifiutando sia le stock option sia “accomodamenti” di buonuscita che gli venivano offerti da influenti soci del “patto di sindacato”.
Un personaggio così può essere solo commemorato, non studiato. Troppo scomodo per la realtà italiana e anche mondiale. Per ricordare interamente il banchiere Maranghi bisognerebbe fare paragoni impietosi con l’attuale realtà finanziaria italiana. E, forse, non è troppo presto.