Le commissioni Bilancio e Finanze della Camera hanno detto sì, fra contestazioni, defezioni e polemiche, al decreto anticrisi, da oggi a Montecitorio. Il governo sembra intenzionato a porre la fiducia, per garantire il passaggio parlamentare di un provvedimento composito nel quale la maggioranza di governo ha inserito molte misure che hanno fatto discutere: dallo scudo fiscale alla moratoria sul credito delle imprese, alla riforma dell’età pensionabile per le donne nel pubblico impiego.



Ma non c’è dubbio che il provvedimento più saliente – e dibattuto – voluto dal governo, in una fase di profonda crisi economica dominata dalla stretta creditizia, è quello della moratoria. Una proposta, insieme a quella degli sgravi fiscali, auspicata e salutata con favore da Confindustria. Di una svolta nel rapporto incrinato tra imprese e banche si sentiva tutto il bisogno. Non bisogna però perdere di vista, dice Enrico Cisnetto, le riforme strutturali, che non sono un optional, ma la prima cosa da fare per ipotecare la ripresa.



Cisnetto, la proposta di una moratoria del credito sembra la prima vera novità dall’inizio della crisi. Che giovi alle imprese è fuor di dubbio. E per le banche cosa può significare?

Le banche, secondo questo progetto, otterrebbero una significativa maggiorazione della percentuale delle perdite fiscalmente deducibili, oltre ai già previsti, e forse ampliabili, interventi per la loro patrimonializzazione.

Meno tasse alle banche in cambio di più credito, sembra questa la sostanza della proposta. Basterà o serve qualcos’altro? Quali sono i rischi a medio termine?

La proposta è apprezzabile e andrebbe attuata tempestivamente. Tuttavia, non è sufficiente. Gli istituti di credito debbono far molto di più sul piano della selezione del merito dei finanziamenti, debbono essere capaci di guardare alle prospettive di lungo periodo, di prendere come riferimento fondamentale il progetto più che le garanzie reali: insomma, come ha detto il Governatore Draghi, devono riuscire ad essere bravi banchieri anche al tempo della crisi. Miglioramenti significativi sono necessari sul piano della trasparenza e correttezza negoziale. Ma poi, vi è un campo di intervento che spetta alla mano pubblica.



Con quali compiti?

La politica economica, a partire da un maggior stimolo alla domanda aggregata. Quanto, poi, all’“avviso comune” con il quale disciplinare il previsto scambio tra Stato e banche per la moratoria del credito, occorrerà prevenire tutti i problemi che questo metodo ha palesato nella disciplina dei rapporti contrattuali tra Governo, Confindustria e sindacati.

Ancora sul rapporto banche-imprese. Che cosa non ha funzionato finora? La “persuasione morale” del governo, un deficit di rappresentatività delle piccole imprese o cos’altro?

Non ha funzionato il fatto che, pur avendo adottato misure non inadeguate nel settore creditizio e finanziario, il Governo ha indugiato e ancora indugia nel promuovere un’azione che agisca su due fronti: riforma di struttura e forte impulso all’economia, che sarebbe resa possibile proprio dagli interventi strutturali. Insomma, molte sono le critiche che possono essere mosse alle banche. Ma vi sono dei limiti, oltre i quali è la politica economica e la finanza pubblica che deve fare la sua parte. Le banche non possono essere sospinte, o addirittura supergestite, con lo scopo di far loro compiere una selezione del merito di credito che non tenga conto della tutela della stabilità e della cura di una sana e prudente gestione. Ciò, naturalmente, è cosa diversa dalla capacità che deve avere il banchiere nel saper cogliere le prospettive valide, per esempio, di una impresa anche se oggettivamente attraversa delle difficoltà.

Confindustria ha salutato come un successo gli sgravi sugli aumenti di capitale, che paiono una misura più incisiva della timida defiscalizzazione degli utili reinvestiti comparsa per prima in manovra. Qual è la sua opinione sul provvedimento?

È un provvedimento opportuno, che però può essere meglio valutato quando sarà compiutamente definito e se ne sarà osservata la prima applicazione. La materia richiama, però, il rapporto tra le imprese e il mercato dei capitali, che certamente non si esaurisce in questa pur apprezzabile misura.

Minimizzare l’impatto recessivo, da qui al 2010, vorrà dire allungare e aumentare il finanziamento degli ammortizzatori per non licenziare, ma anche dover fare i conti con meno entrate fiscali provenienti da un calo del Pil. D’altra parte il governo non potrà nemmeno aumentare le tasse… Come se ne esce?

Certamente non si può allentare la pressione fiscale in questo momento in cui la “coperta” della finanza pubblica è particolarmente stretta, e nonostante questa fosse una delle promesse elettorali del Governo. Certo però si può migliorare la lotta all’evasione – 100 miliardi di euro secondo la Corte dei Conti – e alla corruzione (50 miliardi). Ma poi si torna ai punti precedenti. Pur nella consapevolezza del carattere globale della crisi e della conseguente necessità di ridefinire assi globali, si può fare di più nel nostro Paese in termini di risorse rispetto al Pil da mettere in moto per contrastare la recessione, bilanciando l’intervento con l’avvio delle riforme di struttura (timidamente si è cominciato, in questi giorni, a dare vita a qualche misura in materia pensionistica).

La priorità resta quella di tornare a crescere, ma anche le misure antirecessive vanno lette in quella chiave. Taglio di tasse e spesa pubblica allora restano miraggi?

La ristrutturazione e la razionalizzazione della spesa pubblica sono fondamentali. Promuovere una terapia d’urto che consenta alla metà del 2010 – quando si dovrebbe cominciare a intravedere una timidissima ripresa – di potere agire efficacemente per il rilancio dell’economia, esigerebbe un programma organico e largamente condiviso da redigere con un’ottica di lungo periodo che copra i diversi delle infrastrutture, della ricerca, delle nuove tecnologie, dell’energia. Ma interventi simili sono possibili a patto che si abbia la determinazione di riformare l’economia nella sua struttura, legando la prospettiva alle misure congiunturali. I necessari interventi globali non ci esimono affatto dal fare la nostra parte. All’opposto presuppongono che la facciamo efficacemente. La crisi, per ripetere la frase dell’Amministrazione americana, non va sprecata. Può essere l’occasione per avviare, almeno, quelle riforme che finora non siamo stati capaci di realizzare. Solo in un contesto del genere è affrontabile il tema della pur necessaria riduzione della pressione fiscale.

Quali sono a suo avviso le priorità sul medio/lungo termine?

Riforme, riforme, riforme. Questo è quello che serve alla politica economica del Paese: in primis, quella del mercato del lavoro e degli ammortizzatori sociali e, contemporaneamente, del mercato dei beni e dei servizi.