100 mila alloggi di edilizia residenziale pubblica da realizzare in 5 anni, in proprietà come prima casa o in affitto da riservare alle fasce più deboli, per un costo di 550 milioni di euro, di cui il governo mette subito a disposizione i primi 150 milioni. Il Dpcm contiene solo le linee guida del “piano casa”: ora serve l’approvazione da parte di Regioni e Comuni. Funzionerà? Ilsussidiario.net lo ha chiesto a Stefano Boeri, architetto e urbanista, direttore di Abitare.



Boeri, qual è il suo giudizio sul piano di edilizia residenziale approvato dal governo?

È un intervento sicuramente opportuno, perché stanzia una prima quota di finanziamenti – già previsti dal governo Prodi – per l’edilizia residenziale a fini sociali. Ma al tempo stesso è certamente parziale, perché i 150 milioni messi a disposizione sono ampiamente insufficienti rispetto ai 550 previsti. La seconda grande incognita è relativa alla gestione, perché non è chiaro quali saranno le istituzioni e i soggetti che dovranno gestire, localmente e a livello regionale, gli alloggi popolari.



E il dibattuto capitolo degli ampliamenti?

Appunto. Quello relativo agli ampliamenti volumetrici voluto dal capo del governo è la terza incognita importante. Sarebbe stato opportuno integrare la disciplina relativa alla ristrutturazione e ai piani volumetrici, di cui Regioni e governo stanno discutendo, con l’intervento primo di politica economica del “piano casa”.

Quello dell’ampliamento dei volumi è un tema che ha fatto e farà discutere.

Occorre capire, Regione per Regione, come andrà avanti la cosa. Ci si aspettava una cornice legislativa nazionale che non c’è ancora.

Quali sono gli errori che il social housing nel nostro paese dovrebbe evitare?



L’ho scritto con chiarezza: il problema della casa in Italia va affrontato tenendo bene a mente il grande paradosso delle città italiane, cioè che abbiamo un patrimonio sfitto e dunque inutilizzato gigantesco. Mentre continuiamo non solo a costruire – il che va bene -, ma a estendere nel territorio la città.

E su questo, a suo modo di vedere, occorrerebbe invertire la rotta. Perché?

Sì, perché stiamo davvero evitando di risolvere due problemi avendo già le soluzioni in mano. Questo patrimonio sfitto, se fosse recuperato, potrebbe facilmente rispondere alla domanda sociale delle nostre città. Ci sono dei precedenti che dimostrano che questo recupero è possibile. Un esempio è quello di Barcellona: le agevolazioni accordate a contratti fiduciari tra proprietari e affittuari hanno avuto l’effetto di immettere sul mercato grandi quote di affitto, di far abitare la città e di andare a vantaggio anche dei ceti meno abbienti.

Dunque abbiamo un grande capitale sottoutilizzato.

Direi, per la precisione, bloccato. E l’altro elemento fondamentale è che questa operazione avrebbe l’effetto di re immettere sul mercato le energie produttive del terzo settore, dell’intermediazione sociale, del non profit, che è uno dei grandi capitali che abbiamo in Italia. Vorrebbe dire rivitalizzare le forze che animano da dentro l’organismo sociale. Sarebbe l’occasione per fare un investimento dalla straordinaria valenza positiva.

Quale sarebbe il valore aggiunto rispetto ad una espansione pura e semplice?

Consentirebbe di coniugare le misure anticrisi, cioè il lato economico,  con l’aspetto urbanistico. E con quello ambientale, perché vorrebbe dire evitare di consumare suolo, e di continuare a cementificare terreno agricolo.

Sarebbe un’operazione realistica oltre che possibile?

Ma io sono pienamente convinto che sia proprio questo il centro di un vero piano di edilizia sociale: investire sullo sfitto con contratti di locazione basati su un rapporto fiduciario con gli inquilini, per rimettere sul mercato i volumi inutilizzati. Vorrebbe dire anche ristrutturazione di edifici esistenti, o demolizione e ricostruzione di parte del patrimonio pubblico, senza costruire nuovi pezzi di città esterni alla città consolidata.

Che cosa manca per andare in questa direzione?

Politiche che incentivino scelte virtuose come quelle di cui sto parlando. I proprietari che rimettono sul mercato un affitto bloccato dovrebbero essere premiati. Oppure bisognerebbe dare fondi di finanziamento pubblico a tutte le agenzie e a quelle associazioni che si muovono nel campo dell’intermediazione immobiliare a fini sociali. Sono esperienze che già esistono, come il Consorzio Sir a Milano o l’Agenzia Locare a Torino, e che andrebbero valorizzate al massimo.