Si attende per oggi il voto di fiducia sulla manovra anticrisi, mentre nella serata di ieri è giunta la notizia che il governo ha rinunciato alla stretta sulle banche – compensata, secondo Tremonti, dalla moratoria a vantaggio delle imprese. Francesco Forte, economista: «l’esecutivo auspica la crescita economica, ma appare prigioniero del quotidiano, e afflitto dal perenne timore delle conseguenze sociali. Dove sono le grandi opere?»
Nella sua audizione in commissione Antimafia Draghi ha parlato di rischio usura per le imprese. È un termine molto forte. Lei come valuta questo campanello d’allarme?
Se, come sta accadendo, le banche sono avare nell’erogare credito, si può determinare una situazione come quella descritta da Draghi. È una conferma del fatto che il sistema bancario attuale ha una percezione del rischio eccessiva. Ritengo che la via d’uscita sia quella di estendere le garanzie assicurative sul credito di artigiani e pmi.
La moratoria non basta?
È un provvedimento sbagliato. Poiché implica che la banca venga premiata fiscalmente se un cliente non paga e accumula gli interessi, ci potrebbero essere clienti insolventi che in questo modo vengono aiutati perché c’è uno sconto fiscale. C’è il forte rischio che con un provvedimento di questo tipo le banche, anziché estendere il credito, capitalizzino gli interessi.
Proprio quando la moratoria veniva salutata da un’ovazione generale, è esploso il caso Risanamento.
Non si può dire che in quel caso le banche abbiamo usato la prudenza che normalmente adottano verso le pmi. Le banche in questo caso hanno sostenuto grosse operazioni speculative e finanziato Zunino confidando in una risalita degli immobili. Ma è stata un’operazione molto, troppo azzardata.
Torniamo ai rischi denunciati da Draghi.
Indubbiamente vuol dire che ci sono imprese che barcollano e che si mettono in mano agli usurai per disperazione. Ma vuole anche dire che c’è uno sviluppo dell’usura derivante dal fatto che le banche non finanziano le imprese piccole e non dotate di cespiti da ipotecare.
Ha spiegato di preferire l’estensione di garanzie assicurative alla moratoria. Lei è contro le banche?
Premiare le banche, mentre per esempio nel commercio estero la Sace fa già le assicurazioni sui rischi dei crediti, mi lascia perplesso. La moratoria degli interessi mi sembra l’aspetto particolare di un problema più generale che viene differito ma non risolto: il fatto che uno ha bisogno di credito ma non riesce a ottenerlo.
Perché le banche non vogliono più correre rischi?
Perché da un lato hanno parametri patrimoniali che sono troppo modesti, dall’altro non intendono andare in Borsa a fare aumenti di capitale che potrebbero essere troppo onerosi. Quindi tirano i remi in barca aspettando tempi migliori. Dei Tremonti bond neanche a parlarne, perché preferiscono non spendere per procurarsi il denaro e non rischiare.
Il nodo allora sta nei vituperati parametri di Basilea 2?
I parametri di Basilea 2 sono stati inaspriti nei confronti dei clienti, ma sono debolissimi, e vergognosamente bassi, nei confronti delle banche. A differenza che in altri paesi, in Italia le banche sono in regola con i parametri patrimoniali, ma i loro parametri sono oggettivamente deboli. Quando le cose vanno bene, i soldi li prestano nonostante i parametri patrimoniali deboli perché hanno poco rischio, ma quando la situazione si fa più seria non sono più in grado di prestare i soldi. E a pagarne le spese sono le piccole imprese, che si trovano stritolate. Il vero problema è che non abbiamo fatto una manovra adeguata sul versante del lavoro per le imprese.
Il piano dell’edilizia popolare?
Nasce nano. Faccio notare che per gli ammortizzatori sociali si sono trovati 8 miliardi, mentre il piano di social housing parte con 150 milioni. È incredibile che in Italia un provvedimento di spesa corrente venga finanziato subito, mentre un investimento che ha un valore sociale, etico e culturale oltre che economico come quella dell’edilizia popolare, debba partire con una cifra irrisoria. Serviva un piano non da 150 milioni (più i 200 che devono arrivare), ma da un miliardo. In questo modo l’effetto leva degli investimenti avrebbe mobilitato cinque miliardi l’anno per cinque anni.
«Usciremo dalla crisi in corso – ha detto Draghi, davanti alla commissione Antimafia – con più disoccupazione e più debito: perché entrambi diminuiscano, dovremo essere capaci di crescere ad una velocità ben maggiore di quella degli ultimi dieci anni». Le sembra possibile?
Draghi avrebbe ragione di crederlo se noi facessimo più infrastrutture, perché per avere crescita economica bisogna spendere in grandi progetti infrastrutturali. Se facciamo veri investimenti, quegli investimenti, anche a debito, rendono. Pensiamo poi che le grandi opere pubbliche sono volani di sviluppo alimentati solo in parte dalla spesa pubblica, perché si finanziano in project financing.
Ma allora chi sbaglia?
Guardi, Draghi e Tremonti sono stati dipinti dai giornali come antagonisti, ma dal mio punto di vista commettono lo stesso errore: appaiono rinchiusi in una politica del quotidiano, che si limita ad auspicare la crescita economica ma che si rivela afflitta dal perenne timore delle conseguenze sociali. La verità è che bisognerebbe incentivare subito vere operazioni di sviluppo. Il libero mercato può funzionare, a patto però che lo stato, quando serve, dia le basi e faccia la sua parte.