Il piano industriale? «Ci sto pensando tutti i giorni». Sergio Marchionne liquida così la curiosità dei giornalisti. In realtà, è ben più di un pensiero dominante, sta diventando un’idea fissa, quasi un’ossessione in questa sua torrida estate di pendolare tra Torino, Detroit e Ginevra. Possiamo capire l’angoscia del capo azienda, perché allo stato delle cose la strategia per far uscire la Fiat dalla crisi appare un vero rompicapo. In primavera, aveva calato un asso pigliatutto: il rapporto preferenziale con la Casa Bianca che gli aveva aperto le porte della Chrysler e socchiuso quelle di General Motors. Adesso, una volta saltata l’acquisizione di Opel e delle attività sudamericane di GM, Supersergio deve portare avanti la sua grande incompiuta. Come?



Due anni fa, quando non indossava il maglioncino blu che lo ha reso un’icona pop, Marchionne aveva scommesso su una strategia del ragno: la Fiat al centro della tela, avrebbe stipulato accordi di prodotto con altre case automobilistiche. Poi, nel dicembre scorso, ha annunciato la svolta: le alleanze mirate che sembravano una soluzione intelligente prima della crisi, non bastano. La selezione sarà durissima, da darwinismo economico e sociale; quindi, ci vuole la grande taglia, la massa critica. Con Chrysler è andata, in Europa no: né Peugeot né Opel.



L’obiettivo sopravvivenza non è garantito se è vero che coincide con la produzione di 5-6 milioni di vetture l’anno. Dopo l’accordo con la cinese Gac l’Impero di Mezzo non è più un miraggio, ma non basta a chiudere il gap. E il mercato, nonostante la respirazione bocca a bocca dei governi, resta diviso tra una cronica e strutturale sovrapproduzione nei paesi industrializzati e una corsa selvaggia alla vetturetta a basso costo in quelli in via di sviluppo.

A questo punto, la politica degli astuti annunci non basta più. Prendiamo lo scorporo dell’auto. Il Marchionne ancora in giacca e cravatta spiegava al Wall Street Journal e alla Harvard Business Review che la chiave di volta era puntare sui marchi: Alfa, Lancia e Fiat. La logica conseguenza, allora, sarebbe concentrarli in una società puramente automobilistica, operazione che favorisce le alleanze industriali e consente di presentarsi sul mercato in modo più trasparente. Invece, finora non è avvenuto. Prima perché andavano bene gli altri settori, adesso per la ragione opposta. Il bilancio del secondo trimestre dimostra una caduta a picco di Iveco (il fatturato è sceso del 41% addirittura) e delle macchine movimento terra (CNH cala del 21%) a fronte di una relativa tenuta dell’auto (meno 11%), perché gli incentivi pubblici hanno sostenuto e lanciato i nuovi modelli. Un tatticismo che getta ombra sulla strategia.



Il puzzle è complicato dalla vicenda Chrysler. La Fiat resta partner di minoranza, ma nello stesso tempo l’alleato industriale di riferimento. Una soluzione anomala. Marchionne ha assunto la posizione di comando e quest’uomo che ama le sfide, si gioca qui forse la partita davvero decisiva. Sa bene che deve avere le spalle coperte. Chrysler perde ancora, anche se non più a rotta di collo. Ci sarà bisogno di impegnare denari freschi. Da dove? Washington ha dato tutto quel che voleva e poteva. Gli Agnelli hanno aderito all’avventura a condizione di non scucire un ero in più. E il mercato?

Anche qui, dopo una serie di smentite di convenienza, alla fine è uscito il bond Fiat: 1,25 miliardi di euro, scadenza 2012, tasso al 9,25%. Un successone, perché sono arrivate richieste per ben 10 miliardi. A quel prezzo, è più che un buon affare per le banche e i fondi di investimento. Si pensi che l’Eni ha offerto il 4%. La spiegazione è semplice: il rating. Per Standard and Poor’s, «il profilo di liquidità resta negativo». Il voto, dunque, è ancora B sul credito a breve. Fiat opera nel mercato dei junk bonds, indebitarsi le costa carissimo. Nulla di scandaloso, se serve a crescere. Nulla di insostenibile se riuscirà a produrre profitti a un tasso superiore agli interessi pagati. La finanza ci ha abituato a grandi imprese industriali risalite ai vertici delle tre A. Gli investitori internazionali (e in definitiva i risparmiatori che mettono i propri quattrini nelle loro mani) sanno di accettare un rischio molto elevato. Toccherà a Marchionne convincerli che ne vale la pena, per ragioni industriali e non solo perché, con un costo ufficiale del denaro vicino allo zero, spuntano guadagni ai limiti dell’usura.