Non sono solito usare i miei articoli per rispondere ai lettori, visto che per tale scopo esiste uno spazio apposito, ma siccome tornerò sull’argomento che ha suscitato le ire di uno di loro, rubo qualche riga.
Non ho mai detto – il testo del mio ultimo articolo ne è la prova – che a mio avviso esiste un problema storico-etnico-culturale per l’ingresso dell’Islanda dell’Ue. Non lo penso affatto, soprattutto alla luce di chi abbiamo fatto allegramente entrare finora e di chi sta per farlo. Detto questo, se anche la Bei ha fatto l’errore di indicizzare obbligazioni in corona islandese ora inesigibili (che dire dei regolatori dormienti quando mezza europea operava sul forex scommettendo anche la moglie sul cross tra euro e corona danese?), nessuno mi toglierà dalla testa che prima di gettarsi in un investimento bisognerebbe informarsi: e il fatto che le tre banche islandesi fossero esposte a liabilities pari a 11 volte il Pil del paese lo sapevano tutti, erano il più grosso hedge fund del mondo. Se uno vuole rischiare va benissimo, non si lamenti però poi se picchia la faccia contro il muro.
Detto questo, ritengo che l’ingresso dell’Islanda nell’Ue sia unicamente a scopo di copertura e protettivo: non c’entrano né politica né affinità tra popoli, è solo interesse. Sacrosanto, ma interesse. Ieri però ho parlato con l’amico e collega Ambrose Evans-Pritchard, capo della redazione economica internazionale del Daily Telegraph appena rientrato da Reykjavik e devo dire che la mia prospettiva è cambiata: non sarà l’Ue a dover pagare dazio, sarà l’Islanda a riprendersi prima del previsto e dire “no grazie” al nodo scorsoio dell’agganciamento all’euro che sta devastando, ad esempio, la Lettonia.
Qualche cifra. I disoccupati, nonostante il default globale dell’economia del paese, sono il 9,1% e tendono a scendere in maniera rapida mentre la media dell’eurozona è il 9,5% e tende a salire in maniera devastante. Quest’anno la contrazione dell’economia sarà del 7%, sempre meglio del 9,8% dell’Irlanda. Inoltre, parola di chi è appena tornado da lassù, non si era mai visto un boom del genere del turismo – soprattutto giapponese ben fornito di yen – e di vita notturna, soprattutto di europei: qualcuno comincia a parlare di “Ibiza artica”.
Il perché è presto detto: la corona islandese ha perso metà del suo valore rispetto all’euro dopo il crollo delle sue banche, la vecchia cara svalutazione che attrae. Insomma, tra due-tre anni quando gli islandesi saranno chiamati a dire sì o no all’adesione Ue, si troveranno di fronte a un’economia nazionale già in netta ripresa, mentre dall’altra parte la bomba ad orologeria della disoccupazione sarà già esplosa. Il problema vero è l’economia reale, non la finanza. Già oggi la disoccupazione giovanile è al 34% in Spagna, al 28% in Lettonia, al 25% in Italia e al 24% in Grecia e continua a salire.
Concludeva Evans-Pritchard con il classico humour britannico: «Voglio vedere, con quelle cifre, come faranno a Bruxelles a vendergli la favoletta della protezione garantita dal’euro». In effetti l’Islanda sarà già in surplus dal prossimo anno dopo aver toccato un picco di deficit del 25% del Pil: messi male, certo ma certamente meglio di Irlanda e Lettonia.
I problemi, poi, per l’Europa sono anche altri. Ovvero, il fatto che la bolla delle carte di credito che ha già colpito gli Stati Uniti è sempre più probabile che ora colpisca anche in Europa. Un rapporto del Fondo Monetario Internazionale, citato dal Financial Times, dice infatti che nel vecchio continente si perderà il 7% dei circa 1.730 miliardi di euro del credito al consumo. Le banche da parte loro stanno cercando di abbassare il limite del credito concesso e di emettere il minor numero possibile di carte di credito, alzando i requisiti richiesti: questo perché l’attuale crisi, accompagnata dall’aumento della disoccupazione, sta rendendo più difficile il rimborso dei prestiti contratti.
La maggior parte delle insolvenze si registrerà nel Regno Unito, paese che ha la maggiore propensione all’indebitamento in Europa e i segnali parlano chiaramente di rischi molto pesanti, subito dopo l’estate, per Barclays e Lloyd Banking Group, quest’ultima obbligata ad assorbire al proprio interno le perdite in caso di insolvenze sulle carte poiché questa clausola di copertura è stata esclusa dal piano di salvataggio da 260 miliardi messo in piedi dal governo britannico. Unite questa vera e propria bomba ad orologeria a quella della disoccupazione sempre crescente, quindi le insolvenze sempre più probabili e avrete l’esatta immagine di ciò che ci attende a breve.
In compenso, sui mercati vige sempre di più la follia. Il livello di emissione di obbligazioni da parte di mercati emergenti come Polonia e Ungheria – ma anche Russia e Brasile – ha raggiunto il picco massimo dal 1962, facendo gridare in molti al miracolo e alla ripresa. Balle. Quei paesi sono potenzialmente insolventi, il fatto è che la decisione presa dall’ultimo G20 di garantire extra liquidità al Fondo Monetario Internazionale ha convinto i mercato che i governi non permetteranno un default delle nazioni appartenenti ai cosiddetti mercati emergenti. Soprattutto, nell’Est europeo. Insomma, copertura pubblica per speculazione privata: peccato che quando il combinato congiunto dell’esplosione delle prossime tre bolle – bancaria con epicentro in Germania e ad Est, assicurativa e delle carte di credito con epicentro nel Regno Unito – con l’aumento esponenziale di disoccupazione e indebitamente dei vari Stati, i soldi del Fmi saranno un cucchiaino con cui cercare di prosciugare l’oceano.
A quel punto la colpa sarà di tutti, non solo dei regolatori ma anche di chi si fa prendere dall’entusiasmo e soprattutto dall’avidità: non prendetevela con il semaforo se qualcuno passa con il rosso e provoca incidenti mortali.