Tanto rumore per nulla? La rituale convocazione estiva, le accuse di cartello da parte del ministro Scajola, le denunce dell’Associazione consumatori e poi tutto si riduce a due centesimi? Se è così, allora ha ragione Il Sole 24 Ore che, difendendo gli interessi confindustriali, chiede al governo di ridurre le accise che gravano sulla benzina, magari eliminando la tassa per il Vajont, il Belice, Suez e l’Abissinia.
In realtà non è tanto semplice. Il prezzo del petrolio e dei suoi derivati, è una sorta di caleidoscopio nel quale si rispecchiano i più complessi fenomeni del mercato mondiale e nazionale. Risultante di molteplici varianti, congiunturali e strutturali, incorpora anche – inutile negarlo – una rendita perché il mercato è dominato dai grandi oligopoli, da blocchi di domanda e di offerta ben organizzati. Per questo è così sensibile e per questo la sua dinamica va presa molto sul serio. Tanto più quando s’intravede la mano nera della speculazione.
Ai continui alti e bassi che, quanto meno dalla crisi petrolifera degli anni ’70, angustiano la nostra vita, si potrebbe reagire come faceva Gilles Li Muisis, abate di Tournai, in fatto di monete: «Le cose sono molto oscure: esse crescono e diminuiscono di valore e non si sa cosa fare; quando si pensa di guadagnare si trova il contrario». Ogni volta che qualcuno perde, parte la caccia all’untore. È già successo molto spesso durante questa crisi: prima i rapaci finanzieri di Wall Street, poi i banchieri pigliatutto (a cominciare dagli alti emolumenti) e i manager imbroglioni, adesso tocca ai petrolieri.
Fior di economisti si sono esercitati nel dimostrare che gli speculatori hanno per lo più un ruolo marginale. Paul Krugman, che certo non è un fondamentalista del mercato, un anno fa ha pubblicato un’analisi tutta cifre e tabelle per dire che la speculazione è un “nonsense”. Adesso, invece, ha cambiato idea ed è giunto alla conclusione che dietro i recenti rialzi «si può vedere la firma della speculazione su larga scala». Un fenomeno di per sé “razionale”, come l’accumulazione delle scorte, che provoca distorsioni irrazionali.
Se l’ultimo Krugman avesse ragione, allora sarebbe l’Unione petrolifera a sparare nonsense quando dice che gli ultimi aumenti «sono del tutto giustificati». Da che cosa? Anche i petrolieri italiani si sono riempiti di greggio a buon mercato. Adesso pagano gli acquisti rincarando il prezzo alla pompa? Se è vero che passano fino a tre mesi tra l’arrivo della materia prima e la distribuzione del prodotto finito, allora sarebbe interessante sapere a quanto è stato contabilizzato il barile nei bilanci dei raffinatori.
Non solo. Appare difficile dimostrare che la benzina non sconti un margine sui cambi. Come si fa a dire che è legittimo aumentarla quando il barile pagato in dollari sale ma nello stesso tempo l’euro si apprezza sul dollaro? Se compensazione c’è, avviene in un arco di tempo lungo, mentre il rialzo è immediato (non altrettanto la discesa). Proprio in questa differenza temporale, s’annida il grasso supefluo o, se vogliamo chiamarla così, la speculazione. Altro che due centesimi. I consumatori in questo hanno ragioni da vendere.
La frenesia del petrolio nel 2008, mentre i paesi industrializzati erano già entrati in recessione, e anche la Cina rallentava, non può essere spiegata con la domanda delle aree in via di sviluppo; fenomeno di lungo periodo che ha agito senza dubbio nel decennio scorso, ma non giustifica prima un’impennata fino a 140 dollari il barile e poi la discesa, nel giro di tre mesi, a 40. È vero che la follia del greggio ha seguito la follia della finanza che ne guida gli scambi attraverso il mercato dei futures. Tuttavia, il senso comune stenta a credere che sia frutto del caso.
Naturalmente non si può tornare ai prezzi amministrati, fonte di abusi e di una distorsione ancora peggiore del mercato. Quanto alle accise, è vero che sono molto alte, e hanno l’aria di una facile mungitura, ma servono anche da incentivo ai risparmi. Una tassazione troppo bassa è anti-ecologica: al Sole e alla Confindustria, sensibili a questi temi, certamente ciò non sfugge.
Dunque, che fare? È possibile utilizzare la domanda pubblica in funzione calmieratrice? Per esempio con le scorte strategiche (soprattutto se è vero che oggi siamo in presenza di una speculazione da scorte), è realistico chiedere all”Eni, che sul mercato interno ha un ruolo dominante, di fare da contrappeso, senza mettere a repentaglio i suoi conti e gli interessi degli altri azionisti diversi dal governo? Si può creare una borsa o centrale d’acquisto pubblica che tagli la cresta dei privati?
Forse è il momento di aprire una riflessione di fondo, all’insegna del “mercato ben temperato” con il quale si vuole superare la più crisi. Senza inutili grida né grotteschi sbracamenti di due centesimi.