I dati rilasciati dall’Istat e dall’OCSE negli ultimi giorni riportano d’attualità il tema della deflazione, ovvero della crescita negativa dei prezzi.
I termini enfatici utilizzati da molti giornali non sono inappropriati. Questo non perché la deflazione sia un fenomeno fortemente negativo in sé, quanto piuttosto perché essa è il sintomo di una situazione economica fortemente depressa.
La deflazione è infatti la conseguenza della recessione economica che ha colpito la nostra economia come quella di tutti gli altri paesi industrializzati. Il fatto che si sia arrivati alla deflazione è dunque il segnale che la crisi economica ha una profondità e una durezza maggiori di quanto molti potevano immaginare. Sotto questo profilo la situazione italiana è simile a quella di altri paesi europei, tuttavia esistono importanti differenze che non depongono a nostro favore. Infatti, nonostante il fatto che l’Italia stia sperimentando una contrazione dell’output tra le più rilevanti dei principali paesi europei, la diminuzione dei prezzi non è altrettanto marcata.
Il confronto con Francia e Spagna è illuminante: per il 2009 l’Eurostat prevede una contrazione del PIL del 4.4% in Italia del 3% in Francia e del 3.2% in Spagna.
L’indice dei prezzi a consumo su base annua è in territorio negativo da marzo in Spagna, da maggio in Francia mentre nel nostro Paese risulta ancora positivo (0.6% a giugno).
Tutto ciò significa che mentre la nostra economia si contrae più velocemente rispetto a quella degli altri due paesi, non accade altrettanto per i prezzi. Il risultato è un’importante perdita di competitività nei confronti dei nostri partner europei.
Due domande emergono da queste considerazioni: in primo luogo quali sono le cause di queste differenze, in secondo luogo quali azioni correttive possono essere messe in atto.
Con riferimento alle cause tutti gli indizi portano ai “soliti sospettati”, ovvero alla scarsa concorrenza che caratterizza il mercato italiano. Non è infatti un caso che le maggiori resistenze alla diminuzione dei prezzi si realizzino nei settori meno liberalizzati come quello dei servizi rispetto a quelli dove la concorrenza interna e internazionale è più forte come quello manifatturiero. L’esperienza storica ci insegna che i settori meno esposti alla concorrenza non solo sono quelli in cui i prezzi diminuiscono più lentamente in presenza di una fase recessiva, ma sono anche quelli in cui la successiva ripresa è accompagnata da una crescita dei prezzi più rapida.
Il tema delle liberalizzazioni non riguarda solo i settori ancora fortemente protetti dalla concorrenza, ma anche quelli dove importanti passi in avanti sono stati già compiuti: si pensi ad esempio al settore della telefonia dove, nonostante la presenza nel mercato di nuovi operatori, il nostro Paese continua a essere caratterizzato da tariffe tra le più alte d’Europa.
Il secondo elemento che svolge un ruolo decisivo nella dinamica dei prezzi e dunque anche in quella deflattiva è quello della contrattazione salariale. Su questo tema il dibattito politico è molto acceso stante la proposta di alcuni esponenti del governo di introdurre le cosiddette “gabbie salariali”. Il fatto che il costo della vita sia diverso tra regione e regione e soprattutto tra il Nord e il Sud del Paese è un dato di fatto. Tuttavia non è chiaro che il modo più adeguato per ridurre i differenziali nei salari reali sia quello di ricorrere alle gabbie salariali. Esse infatti introducono nel sistema di contrattazione un ulteriore elemento di rigidità mentre ciò che sarebbe necessario, soprattutto in questo periodo, è una maggiore flessibilità.
Piuttosto appare molto più efficace la proposta avanzata tra gli altri da Treu e Ichino di dare maggiore spazio alla contrattazione decentralizzata rispetto a quella centralizzata. In questo modo si raggiungerebbe l’obiettivo di legare i salari non solo alla realtà territoriale ma anche alla produttività aziendale, ottenendo il risultato di venire incontro sia alle esigenze dei lavoratori/consumatori sia a quelle dei datori di lavoro/produttori.
Da ultimo, il tema delle gabbie salariali apre un problema enorme scarsamente considerato nel dibattito attuale: quello della trasparenza e della misurabilità. Non è possibile che il settimo paese industrializzato al mondo non abbia dati ufficiali relativi al costo della vita nelle diverse realtà territoriali che lo compongono.
L’Istat infatti pubblica i dati sul tasso di inflazione a livello regionale, ma non i dati sul livello dei prezzi regionali. Il che impedisce di fatto un paragone effettivo del costo della vita nelle diverse regioni o provincie. Al di là della contingenza del dibattito relativo alle gabbie salariali, questa deficienza deve essere colmata al più presto. Non si possono prendere decisioni politiche rilevanti senza un adeguata conoscenza del fenomeno.

(Emilio Colombo)