A ormai più di due anni dallo scoppio della micidiale crisi finanziaria che ha contribuito a generare la più grave recessione mondiale dopo quella degli anni Trenta (risale infatti al 9 agosto 2007 la tristemente nota prima massiccia immissione sul mercato di 95 miliardi di dollari da parte della BCE), lo scenario economico globale, pur ancora in presenza di elementi di incertezza e complessità, presenta finalmente i primi evidenti segni di deciso miglioramento, anche se non è ancora chiaro quanto dovremo aspettare per vedere una crescita davvero sostenuta.
Come era prevedibile, ad annunciare la ripresa sono stati i mercati azionari che negli ultimi 5 mesi hanno realizzato consistenti miglioramenti, quantificabili in incrementi dell’ordine del 40-50% del valore delle quotazioni. Il trend positivo sembra ora solidamente avviato anche perché la crescita dei listini si è verificata in misura geograficamente omogenea (in Europa come in Asia e in Usa), anche se prese di beneficio con correzioni verso il basso, anche consistenti, saranno probabili nelle prossime settimane. I nervosismi di questi ultimi giorni sembrano preludere ad ulteriori aggiustamenti.
Sul fronte dell’economia reale è stata l’Asia, e la Cina in particolare, a mostrare i primi decisi segnali di ripresa. In realtà, in molti di questi Paesi la crisi si è manifestata con un semplice rallentamento di una crescita sino a quel momento senza freni. Basti pensare che in Cina, nonostante la drammatica frenata dell’economia mondiale, il Pil crescerà comunque nel 2009 ad un tasso tra il 6,5% e l’8%, a seconda delle differenti stime, e ad aprile scorso l’indice della produzione industriale del gigante asiatico è stata dell’8,3% rispetto allo stesso periodo del 2008. Si tratta dati impressionanti, e infatti sono in molti oggi a prefigurare una uscita dalla crisi trainata dalla locomotiva di Pechino.
Anche dagli Stati Uniti arrivano oggi segnali incoraggianti sia sul fronte dell’occupazione, con la discesa del tasso di disoccupazione, sia dal mercato dell’auto, con le vendite di automobili che sono tornate a crescere. Entrambi questi segnali vanno tuttavia valutati con prudenza perchè il primo è derivato in realtà solo da una frenata della disoccupazione, con una perdita a luglio di soli 250 mila posti contro i 440 mila del mese precedente, e il secondo è stato conseguito grazie a consistenti politiche di sostegno alla domanda e all’offerta.
Anche in Europa non mancano le indicazioni di segno positivo. Non solo la Germania, le cui esportazioni sono cresciute a giugno del 7%, sembra essersi rimessa in carreggiata prima degli altri, candidandosi così a svolgere per Eurolandia quel ruolo di traino che la Cina potrebbe avere per tutto il pianeta, ma anche Italia e Francia, pur in misura diversa e con indicazioni ancora in parte contrastanti, sembrano aver passato la fase peggiore della crisi.
Nel nostro Paese in particolare, accanto ai dati certificati dall’Istat di una riduzione sia del Pil, che nel secondo trimestre 2009 è calato del 6% su base annua (con una discesa congiunturale trimestrale dello 0,5%), sia della produzione industriale, che a giugno è diminuita dell’1,2% su base mensile, va registrato anche la previsione positiva dell’Ocse che individua nell’Italia il Paese in cui più si manifestano “segni di ripresa”. In questo caso non vi è, a nostro avviso, contraddizione tra dati e previsione giacche i primi rilevano le tracce di una crisi gravissima e le seconde indicano la prospettiva di una inversione di tendenza.
Va dato atto al nostro Governo di aver saputo sinora operare con efficacia e giudizio contemperando tre esigenze tra loro non facilmente conciliabili: la salvaguardia dei conti pubblici, con un rapporto tra deficit e Pil in pericoloso rialzo; il sostegno all’occupazione, così da preservare la coesione sociale; e infine il flusso di credito alle imprese, così da non penalizzare troppo gli investimenti.
In questa valutazione complessivamente positiva dell’operato del Governo, due misure a sostegno al nostro apparato produttivo in affanno ci sembrano particolarmente rilevanti quanto ad efficacia e tempestività. La prima è rappresentata dall’approvazione definitiva del cosiddetto decreto anticrisi contenente, tra l’altro, la detassazione degli utili investiti in nuovi macchinari e apparecchiature industriali, e gli sconti fiscali per gli aumenti di capitale fino a 500 mila euro. La misura, pienamente condivisibile, ci sembra importante anche dal punto di vista culturale perché intende sostenere le imprese che hanno deciso di puntare sullo sviluppo.
Il secondo importante tassello della politica del Governo a favore delle Pmi consiste nell’intesa siglata dall’Abi e dalle Associazioni di categoria (ma fortemente sostenuta e incoraggiata dal Ministro Tremonti) sulla moratoria dei debiti delle piccole e medie imprese nei confronti degli Istituti di credito, moratoria peraltro già prevista nello stesso decreto anticrisi.
Si tratta di due provvedimenti importanti, e tra loro complementari, che dovrebbero fornire alle nostre imprese l’ossigeno necessario per agganciare rapidamente la ripresa. Il primo direttamente ascrivibile all’attività del Governo, il secondo derivato dal dialogo e dal negoziato tra i protagonisti della vita economica sotto la vigilante regia del Governo medesimo.
Tutto questo non attenua però le preoccupazioni e l’incertezza per quanto potrà accadere alla ripresa delle attività produttive, specialmente per quanto riguarda la disoccupazione. È noto infatti come durante il processo di uscita dalla crisi, alla fase di ritorno alla crescita segua prima la fine dei tagli ai posti di lavoro e solo dopo il ritorno alle assunzioni. Nel solo nostro Paese si prevedono in autunno ulteriori 200 mila disoccupati, un numero che fa tremare i polsi a chiunque conosca quanto sia importante la coesione sociale per il successo delle nostre imprese.
Come fare allora per riguadagnare rapidamente la competitività perduta e impedire un drammatico ridimensionamento del nostro apparato produttivo? Due sembrano le strade da percorrere senza indugio: diversificazione geografica delle esportazioni, con un consistente ampliamento dei mercati esteri di sbocco delle nostre merci, e forti dose di innovazione, di processo e di prodotto, ottenute attraverso la valorizzazione delle idee e delle persone.
Si tratta di due percorsi non facili che però, ne siamo certi, le nostre imprese sapranno compiere perché, come dimostra un recente studio di Mediobanca su oltre 2 mila aziende di grande e media dimensione, il nostro sistema produttivo è stato capace di una sostanziale tenuta nel 2008, e anche nei primi difficilissimi mesi del 2009, nonostante il forte calo del fatturato, è riuscito a non intaccare il patrimonio e a mantenere una struttura finanziaria sostanzialmente equilibrata.
Dunque le nostre imprese sono arrivate alla crisi con i conti in ordine e con una forte capacità competitiva conseguita grazie agli sforzi e ai sacrifici degli anni precedenti. Sforzi e sacrifici, è bene ricordarlo, che sono stati affrontati assieme da imprenditori e lavoratori, nella comune consapevolezza che ogni impresa deve durare nel tempo e risponde ad un progetto che non si esaurisce nella sola ricerca del profitto. Si tratta di valori forti, capaci di unire, come l’esperienza stessa della crisi ha dimostrato: un’imprenditorialità responsabile, capace di coinvolgere i lavoratori nelle decisioni più difficili, è riuscita sinora a ridurre al minimo i licenziamenti e a preservare la capacità produttiva.
Il che dimostra, ancora una volta, che le vere risorse che dobbiamo oggi strenuamente difendere e valorizzare, perché da esse dipende il nostro futuro, sono costituite dal capitale umano e dal capitale sociale che le nostre Pmi hanno saputo costruire nel tempo sul territorio. Perché il vero sviluppo passa attraverso la promozione della persona e dei valori della comunità.