Come noto l’immigrazione è un fenomeno complicato da analizzare, sfuggente nelle sue articolazioni più profonde, e dunque inadatto agli eccessi di semplificazione, che invece dominano il dibattito pubblico di qualunque Paese.

Il vecchio adagio populista, secondo cui gli immigrati toglierebbero lavoro agli italiani, è esemplarmente uno degli argomenti iper-semplificati che hanno fatto la fortuna delle Leghe nella loro fase propulsiva degli anni Novanta. I fatti hanno strada facendo dimostrato la falsità dell’affermazione: gli stranieri, regolari o meno, si sono inseriti perfettamente nel sistema occupazionale del nostro Paese, andando a collocarsi lungo gli interstizi professionali lasciati liberi dagli italiani.



Oggi, come noto, sono quasi sempre i lavori più duri e a bassa qualificazione a vederli protagonisti: colf, badanti, operai generici, muratori. Lavori che agli italiani interessano sempre meno e che invece aprono la strada dell’inclusione sociale e di una almeno parziale emancipazione economica a una popolazione che ormai pesa per il 6% sul totale dei residenti in Italia.



I dati diffusi da Banca d’Italia confermano dunque in modo autorevole un’evidenza che l’opinione pubblica ha imparato a riconoscere, tanto che anche le frange più dure dell’intolleranza xenofoba utilizzano da tempo altri temi per catturare l’attenzione sul tema. Primo tra tutti quello della criminalità, dove le evidenze empiriche appaiono decisamente più solide.

Dunque gli stranieri non rubano posti di lavoro agli italiani, e anzi molto spesso (è il caso di colf e badanti) rappresentano una indispensabile stampella cui appoggiare il peso di molte famiglie, permettendo a moltissime donne (in particolari madri) di lavorare a loro volta.

Possiamo accontentarci di questa informazione per guardare con ottimismo allo sviluppo del fenomeno migratorio nei prossimi anni? Evidentemente no. Sono soprattutto i dati relativi al capitale umano di queste persone a preoccupare maggiormente. Nel rapporto di Bankitalia si legge infatti che i tassi di abbandono scolastico tra le nuove generazioni di stranieri sono significativamente più alti rispetto a quelli degli italiani e che in generale gli stranieri mostrano livelli di competenze più bassi rispetto ai loro compagni di scuola, soprattutto nelle regioni del Sud.

Ciò significa che il meccanismo di inclusione sociale è inceppato, con il rischio di generare una spirale di impoverimento ed emarginazione i cui effetti cominceranno a vedersi già nei prossimi anni. Sappiamo da molte e concomitanti fonti informative come il fenomeno della dispersione scolastica sia al tempo stesso generato dalla e generatore della povertà. In una popolazione ad elevati tassi di povertà gli alti tassi di abbandono possono essere guardati come ad un destino inevitabile (il prezzo da pagare allo sviluppo, atteggiamento stigmatizzato anche da Benedetto XVI nelle recente enciclica “Caritas in Veritate”), oppure osservati come un vero e proprio “indicatore sentinella”, capace di predire una crescente spirale di esclusione (e dunque non solo di povertà ma anche di probabile criminalità) in una popolazione già particolarmente a rischio.

Insomma, siamo di fronte ad un fenomeno a due facce: la popolazione immigrata ha utilizzato fino ad oggi il lavoro come arma potente di inclusione, ma rischia di rimanere sempre più ferma nei gradini più bassi della scala sociale, a causa di un sistema scolastico che invece di aiutare la mobilità ascendente diventa strumento conservatore di un perdurante immobilismo sociale. Rischiando di consegnare le nuove generazioni straniere ad un destino più complicato rispetto a quello dei loro padri.

Ce n’è a sufficienza per aprire un capitolo speciale dell’emergenza educativa del nostro Paese, rimediando agli errori generati in particolare dall’ideologia egualitaria e multicultaralista dei buoni sentimenti.