Sergio Marchionne, l’amministratore delegato della Fiat diventato famoso per aver salvato la casa torinese dai terribili guai in cui si dibatteva fino a tre-quattro anni fa e anche per il suo vezzo di indossare sempre un maglione al posto della giacca di prammatica, è un signore che lavora molto fino a “triplicare le ore del giorno”, come direbbe Joseph Roth.
Chissà se nel pochissimo tempo che gli resta da dedicare al riposo e al sonno sogna ancora quei 6 milioni di automobili di cui tanto il manager italo-svizzero-canadese ha parlato nei mesi scorsi. Quel numero magico, appunto 6 milioni, era a suo dire la soglia minima che un produttore d’auto doveva raggiungere per disporre di economie di scala sufficienti e poter sopravvivere, dando anche qualche soddisfazione agli azionisti, in un mercato dominato da una concorrenza agguerrita come mai nella storia dell’industria automobilistica.
Il traguardo del numero 6, la casa torinese non lo ha raggiunto, come si sa. Ai suoi 2 milioni storici, ha aggiunto gli altri 2 della Chrysler, mentre i 2 mancanti, quelli della Opel messa in vendita dalla General Motors, stanno definitivamente per essere assegnati (la notizia ufficiale è attesa in queste ore) al gruppo austro-canadese (con forte presenza finanziaria russa) Magna. E la Fiat, per bocca del suo vicepresidente John Elkann, ha dichiarato di non essere disponibile a un rilancio e di considerare la partita Opel chiusa.
Benissimo. Torino ha quindi deciso di affrontare il mercato mondiale con le forze di cui dispone oggi, accontentandosi, se e quando si presenterà un’occasione, di fare qualche piccola acquisizione per allargare ancora un po’ il suo perimetro. Ma questo si vedrà. Ora la squadra di Marchionne è al lavoro per far funzionare quello che c’è, per rendere operativa quella fusione fra Fiat e Chrysler che è stata in fondo facile dal punto di vista politico e finanziario (su entrambi i fronti c’è stato l’appoggio dell’amministrazione Obama impegnata a non far fallire Detroit) ma che ora deve affrontare i nodi veri, cioè quelli industriali e commerciali.
In poche parole: la Fiat ha ottenuto la luce verde e i dollari americani perché ha storicamente il know how per progettare auto di piccole-medie dimensioni a basso consumo di carburante. Proprio quel tipo di auto che rientra nella strategia economica del presidente Usa nella quale le istanze ecologiche e di lotta all’inquinamento hanno molto spazio. Ora la Fiat deve dimostrare che quelle auto le sa produrre in America e soprattutto che riuscirà a venderle agli americani da sempre abituati a viaggiare con grande comodità sulle loro superbe autostrade che attraversano il paese-continente da est a ovest, da nord a sud.
I primi passi di questa lunga marcia sono già stati fatti. Marchionne ha formato la sua squadra non da colonizzatore, nel senso che si è portato a Detroit da Torino soltanto pochi collaboratori strettissimi e il resto del management lo ha selezionato lì, in casa Chrysler. E con questo ristretto team ha deciso la prima mossa, annunciata pochi giorni fa da un lungo e dettagliato articolo del Wall Street Journal. Il Lingotto ha scelto l’impianto della Chrysler di Toluca, in Messico, per produrre la 500 destinata a essere venduta sui mercati latino e nord americani, mentre i motori saranno prodotti nel Michigan.
«Toluca – scrive il WSJ – è un impianto che combina l’alto livello di efficienza con il basso costo della manodopera ed è collocato in modo tale da poter servire in modo efficace anche il Nord America». La 500 dovrebbe sbarcare sul mercato americano già nel 2010; in un secondo tempo verrà progettato un secondo modello compact un po’ più grande della 500, concepito apposta per l’automobilista statunitense.
E così Marchionne, finita la breve stagione degli annunci strategici sui 6 milioni di pezzi che sembravano più da trattati di management molto teorici, ha tirato fuori la sua vera anima operativa e si è messo al lavoro. Come stanno facendo anche i suoi concorrenti americani: la General Motors, che era in condizioni anche peggiori della Chrysler, incassati gli aiuti pubblici, ha già annunciato che presto dalle sue catena di montaggio uscirà un modello superecologico in grado di percorrere circa 70 chilometri con un litro di benzina. È proprio l’auto verde che Obama ha chiesto a Detroit in cambio dei miliardi di dollari di finanziamenti pubblici. Anche la coppia Fiat-Chrysler dovrà marciare nella stessa direzione, e a passo spedito. E le prime mosse sembrano quelle giuste.