Anche nel nostro Paese vi sono chiari segnali che la recessione sta portando con sé un riflusso protezionistico, che, sui mercati finanziari, si è manifestato modificando in maniera sostanziale il mercato del controllo societario a favore dei gruppi di comando esistenti. Per giustificare tali provvedimenti, volti evidentemente a limitare la libera circolazione di capitali, è stata evocata minaccia dei cosiddetti fondi sovrani, che, secondo l’opinione degli esponenti nel mondo politico e delle istituzioni, rappresentano un pericolo per il capitalismo occidentale, in quanto possono assumere forme anche ostili e aggressive.
Ma i fondi sovrani rappresentano realmente una minaccia tale per il mercato societario da dover istituire dei comportamenti protezionistici al fine di limitare la libera circolazione dei capitali (domestici e stranieri) nel nostro Paese?
In primo luogo occorre dire che le tanto sbandierate risorse finanziarie disponibili ai fondi sovrani si aggirano sui 400 miliardi di dollari. I circa 4 trilioni di dollari di cui si fa spesso menzione devono essere infatti depurati dagli assets già investiti. Si tratta di una somma rilevante? Se si pensa che il totale dei valori mobiliari negoziati negli Stati Uniti (equity e debito) ammonta a 50 trilioni mentre il totale su base mondiale è pari a 165 trilioni, le risorse finanziarie a disposizioni dei fondi sovrani sono, certo, rilevanti, ma non tali da presentare attualmente una minaccia per i mercati finanziari internazionali.
Se poi si passa ad osservare con la dovuta attenzione gli studi più recenti sulle strategie di investimento dei fondi sovrani sorge più di qualche dubbio circa la loro effettiva pericolosità. I fondi sovrani, in verità, assumono delle strategie di investimento ben diverse da quelle dipinte a tinte fosche dal mondo politico e delle istituzioni non solo in Italia ma anche all’estero.
Le ricerche empiriche sul fenomeno rilevano che i fondi sovrani acquistano quasi esclusivamente partecipazioni di minoranza con obbiettivi di lungo termine (sia che la target sia quotata sia in caso contrario) e per quel che concerne le società quotate l’entrata nel capitale avviene nella più parte dei casi con emissioni di strumenti finanziari concordate preventivamente col management (si veda ad esempio l’ingresso nel capitale di Unicredit da parte della Central Bank of Libya).
Questa peculiarità, come notato da alcuni, può dare luogo a pericolose alleanze tra il management della target e i gestori dei fondi, i quali potrebbero essere spinti a un esercizio passivo e connivente dei diritti di controllo e monitoraggio. Il che costituisce probabilmente il vero problema di corporate governance. In ogni caso, considerato che i fondi sovrani acquistano quasi sempre partecipazioni di minoranza, gli stessi fondi non sarebbero comunque in grado di intervenire in modo decisivo sulla gestione delle imprese partecipate, e ciò anche nel caso in cui abbiano effettivamente l’intenzione di esercitare una qualche pressione sul management,nella (improbabile) ipotesi che intendano perseguire scopi estranei alla valorizzazione delle loro partecipazioni, cosa che, peraltro, sino ad oggi non è mai avvenuta.
Più che temere scalate ostili da parte dei fondi sovrani, che nella prassi non si sono mai verificate e non sembrano essere una minaccia attuale, data anche la pressione e attenzione sull’operato dei fondi sovrani esercitata in questo periodo storico da parte degli Stati, bisogna prima di tutto evitare che le tendenze protezionistiche si diffondano e prendano piede, in quanto, come giustamente è stato rilevato, «il motivo principale per cui la crisi finanziaria americana del 1929 si tradusse in un decennio di depressione mondiale seguito da una spaventosa guerra fu l’insorgere del protezionismo».
Gli investimenti produttivi di lungo periodo, come quelli riconducibili ai fondi sovrani, non debbono perciò essere limitati, né debbono essere erette barriere all’ingresso nel mercato societario italiano. Al contrario, dovrebbero essere incentivati, soprattutto nei periodi di crisi, in quanto costituiscono un valido canale alternativo di finanziamento per le imprese in difficoltà. Peraltro, questo potrebbe rappresentare solo il prologo di ulteriori misure protezionistiche: è uno scivolo pericoloso, che bisogna evitare e scoraggiare.
Non bisogna dimenticare che il nostro Paese vanta anche una lunga esperienza con i fondi sovrani soprattutto di matrice libica, che non ha mai dato luogo a diffuse perplessità. Si pensi all’entrata dei fondi libici nel capitale di una Fiat in ginocchio a seguito della crisi nel lontano 1976 o la presenza di fondi statali libici nel capitale della Juventus, di Capitalia, di Olcese e di Retelit e, ora, anche di Unicredit e, ancora, alla partecipazione del fondo di Abu Dhabi Mubadala Development Company nella Ferrari e in Piaggio Aero Industries.
Ma il vento sembra essere improvvisamente cambiato quando si è trattato di parlare di contendibilità delle imprese. Lascia davvero perplessi che fondi statali operanti sul mercato internazionale dei capitali da decenni e noti per essere degli investitori professionali, prudenti e con obiettivi di lungo periodo, siano stati rietichettati in un batter d’occhio con la definizione di fondi sovrani e siano divenuti altrettanto velocemente una minaccia per il capitalismo.
Forse si tratta solo dell’incapacità dei lawmakers di comprendere appieno la natura dei fondi sovrani e le loro strategie di investimento, le quali però – a ben vedere – appaiono ben chiare e delineate. Pertanto, i provvedimenti protezionisti che vengono assunti o anche solo proposti in virtù di una necessaria difesa del capitalismo dinanzi dai fondi sovrani non paiono in alcun modo giustificati. E allora, forse, le ragioni per restringere i movimenti di capitali nel nostro Paese risiedono altrove.
Se i fondi sovrani dovessero rappresentare una effettivo rischio per i mercati quel che occorre fare non è agire in senso protezionistico, ma concordare in sede internazionale un set di regole sulla scorta delle linee guida tracciate nel 2008 dalla Commissione Europea, fondate su due punti: governance (separazione tra governi e manager; autonomia gestionale, definizione delle politiche di investimento; sviluppo di politiche di risk management) e trasparenza (pubblicazione degli assets in portafoglio; dimensioni e fonti di finanziamento) e dall’IWG nei Principi di Santiago.