Dopo lo “Shanghai surprise” della scorsa settimana, ecco ora arrivare il “Baltic blast”. Ad annunciarlo, dalla pagina dei commenti del Financial Times, Gideon Rachman, uomo che certamente non può essere tacciato di pessimismo. Difficilmente lancia segnali dall’allarme ingiustificati. Ma quando lo fa, purtroppo, è perché ha toccato con mano e visto con i propri occhi cosa sta per accadere.
E l’ultimo viaggio compiuto in Lettonia la scorsa settimana lo ha convinto di una cosa: i paesi baltici, entro la fine dell’anno, rischiano di saltare e innescare una profonda crisi non solo nei vicini paesi dell’Est ma all’interno della stessa eurozona. I lettori di queste colonne sono informati ormai da settimane della disastrosa situazione in cui versano Lettonia, Lituania ed Estonia, ma ora la questione sta assumendo un peso diverso, più politico che economico. E questo deve spaventarci.
Prima, qualche dato. La scorsa settimana la Lituania ha annunciato una contrazione della propria economia del 22,4% quest’anno: detto fatto, secondo prestito d’emergenza in otto mesi da parte del Fondo Monetario Internazionale. La questione, ora, è come gestire il rifinanziamento di quel prestito: svalutare la divisa locale, di fatto sganciandosi dal meccanismo di fluttuazione fissa con l’euro – il cosiddetto peg – o restare fedeli al patto europeo e infliggere nuove, pesanti misure alla popolazione? Le paghe di chi lavora nel settore pubblico sono già state tagliate di un terzo e il Fmi ha chiesto un ulteriore taglio del 10%. Il tasso di disoccupazione è ufficiosamente all’11% ma ha già sfondato il 16% e viaggia spedito verso il 20%. Le bollette del riscaldamento, al contrario, sono destinate a salire in vista del gelido inverno baltico.
E, in situazioni di potenziale tensione sociale come queste, tagliare – come è stato fatto – del 30% le paghe dei poliziotti potrebbe non essere stata la migliore delle idee. Perché non svalutare allora, come chiede il Fmi e garantirsi un ritorno con l’export visto che oggi, parola del presidente lituano Dalia Grybauskaite, «sia il confine russo che quello tedesco sono chiusi alle nostre esportazioni»? Il perché è chiaro: l’Ue teme effetti dumping sui mercati e soprattutto fluttuazioni selvagge dopo l’uscita dal peg, un qualcosa che potrebbe destabilizzare gli equilibri monetari non solo della regione ma di un’ampia fetta della “nuova Europa” e portare a pericolosi collassi bancari.
Quale ricetta scegliere? Al momento sull’argomento vige il silenzio agostano ma come ricordava Rachman, «così facendo i difensori ad oltranza del peg stanno creando le condizioni per un nuovo schiaffone economico per la fine di quest’anno». Ma siccome quando seguo un argomento mi piace farlo con attenzione, torno volentieri sull’argomento Cina per due motivi. Primo, come denunciavano ieri a Londra, Pechino sta palesemente mistificando i dati di crescita (una sorta di turbativa del mercato globale, volendo usare un termine degno della Consob), visto che quelli diffusi dall’ufficio centrale di statistica e quelli che giungono da un terzo delle province sono palesemente discordanti. E non di poco, parliamo del 10-15% di differenza. D’altronde quando si ha a che fare con un governo che ha il coraggio di vendere la panzana di un aumento del 13% per i salari rurali nel primo semestre dell’anno c’e’ poco da stare allegri: se poi si pensa che l’ufficio di statistica avrebbe impiegato meno di quindici giorni per compiere lo screening su 1,3 miliardi di persone, siamo davvero al ridicolo.
Insomma, Pechino torna a chiudersi a riccio e lo fa forte del fatto che nessuno – Usa in testa – può più di tanto alzare la voce pena veder scaricato il proprio debito pubblico, in gran parte detenuto e quindi garantito proprio dalla Cina e dal suo enorme mercato di riserve. Insomma, chi pronosticava che il prossimo anno la Cina avrebbe superato il Giappone come seconda economia del mondo può sperare di non essere disatteso solo se Pechino continuerà a taroccare i conti: altrimenti, appare decisamente improbabile.
Il problema serio – e che temo vedrà in tempi brevi una reazione Usa, sotto forma di boicottaggio economico e destabilizzazione soffice, la cosiddetta “guerra asimettrica” – è il fatto che Pechino sta stringendo patti bilaterali con tutti i paesi asiatici – Giappone escluso – per indicizzare in renmibi gli scambi commerciali e i flussi sui mercati ora indicizzati in dollari. In Cina nessuno si nasconde dietro un dito: lo facciamo per non cadere nella “dollar trap”, la trappola del dollaro che colpisce quei paesi che non hanno una valuta per così dire internazionale. Entro il 2012 saranno stretti accordi e compiuti scambi per un controvalore di 2 trilioni di dollari tutti indicizzati in renmibi, una scelta dettata anche dalla volontà di Pechino di utilizzare Hong Kong come ariete per detronizzare Shanghai e divenire la “City d’Oriente”.
Pechino scommette forte e punta a monopolizzare il mercato delle commodities e soprattutto i rapporti con i paesi emergenti: e tanto per far capire che si fa sul serio sono già stati siglati accordi di swap valutario con Corea, Malaysia, Indonesia, Bielorussia e Argentina per un controvalore di 650 miliardi di renmibi, circa 67 miliardi di dollari. La Cina ha selezionato cinque città – che rappresentano il 45% del commercio estero nazionale – che possono trattare in renmibi con Hong Kong e Macao.
Il “redback” rischia di diventare la moneta del futuro ma certamente gli Usa non permetteranno che questo accada a discapito della loro economia e della stabilità della loro valuta, già colpita dalla crisi finanziaria globale che vedeva indicizzati in dollari la pressoché totalità dei contratti. Come detto in passato, siamo entrati a pieno titolo nell’era della geo-finanza.