La Lega ha in corso la più classica delle offensive agostane. Anch’io, quando ero portavoce nazionale del Pri, approfittavo della chiusura parlamentare in agosto per lanciare una raffica di ballon d’essai a fini mediatici, giorno dopo giorno. E la Lega lo fa sui suoi tipici temi identitari: dal no a nuovi denari al Sud all’inno regionale a fianco di quello nazionale, passando per la “classica” riproposizione delle gabbie salariali.



Occasione di quest’ultima, un occasional paper della Banca d’Italia – che non impegna l’istituto – secondo il quale la differenza media del costo della vita ammonta al 16,5% in meno nelle Regioni meridionali, una forbice che scende al 10% se si tiene conto dei fitti effettivi. Il problema risultante è dunque quello di come “costruire” salari reali commisurati – tra l’altro – anche ai diversi andamenti del costo della vita.



Naturalmente, la Lega sa benissimo che la risposta al problema – che c’è, innegabilmente – non sta affatto nella ripresa dei 14 diversi parametri territoriali che dal 1945 al 1969 differenziavano le retribuzioni contrattuali, con una forbice che toccò un massimo del 17%. Tanto è vero che Calderoli ieri ha fatto marcia indietro. Ma, come spesso avviene, con una formula facilmente comprensibile ed evocativa, la Lega coglie al volo un problema reale, lo cavalca ed è capace di attirare su di sé immediati consensi popolari.

Qual è la risposta tecnicamente efficace, però, una volta riconosciuto alla Lega il solito fiuto politico per metà fatto di sentire popolare, e per metà di formule volutamente “non tecniche”? Ho una risposta del tutto personale, so che Maurizio Sacconi è d’accordo, il difficile sarà convincerne Giulio Tremonti.



Premessa: distinguiamo nettamente il salario, di cui ci occupiamo qui, dal reddito procapite. Il reddito procapite lombardo con oltre 32mila euro è doppio rispetto ai poco più che 16mila di quello campano e calabrese. Dunque nessuno confonda per favore il Sud col bengodi: nel dato pesa la maggior partecipazione nordica al mercato del lavoro e una disoccupazione anche quattro o cinque volte inferiore, una maggior integrazione nei nuclei familiari di redditi diversi da quelli di lavoro dipendente, la maggior produttività multifattoriale al Nord rispetto al Sud. Ma per attenuare quel gap, servono altre misure, ne ho parlato a proposito del dibattito sulla nuova Cassa, giorni fa. Qui limitiamoci a come parametrare meglio il salario alle curve di costo locali.

Partiamo da un presupposto: il costo della vita è solo “uno” dei costi che variano territorialmente. Certo, per il lavoratore è quello fondamentale. Per la formazione del suo salario nell’impresa, a essere onesti, non è affatto così. Per l’impresa il lavoro è un input essenziale – centrale per chi come noi pensa che l’impresa “è” per l’uomo e non viceversa – ma nella realtà tutti i diversi input hanno curve di costo differenziate localmente: dall’energia – vedi la diversa tariffa marginale elettrica – alla logistica, alle infrastrutture, alla distribuzione, e ahimè anche al costo del denaro e all’ammortamento degli attivi.

È avendo bene in mente questa realtà – che spiega in maniera essenziale il terribile gap di produttività del Mezzogiorno – che nel gennaio scorso, dopo oltre 4 anni di confronto, le associazioni datoriali e i sindacati confederali – tranne la Cgil – hanno firmato l’Intesa per un nuovo modello contrattuale, radicalmente diverso da quello “Ciampi” del 1993. Non è questa la sede per dilungarci nei tanti aspetti innovati, dalla modificata durata triennale alla sostituzione dell’indice per calcolare il recupero del costo della vita.

Fermiamoci all’aspetto essenziale che conta, per il problema posto dal paper di Bankitalia. Mi riferisco al secondo livello contrattuale, in cui si determinerà il salario di produttività. È il cuore della riforma. È stato essenziale vederlo finalmente condiviso dalla stragrande maggioranza degli attori sociali. Ora il problema, però, è di farlo battere al meglio. Con due obiettivi che sono finalmente convergenti e cooperativi, non più “antagonisti”: più salario reale nelle tasche dei dipendenti, più margini alle imprese per crescere e migliorare il conto economico, che in questo 2008 si preannuncia terribile. Poiché il nuovo modello ha una portata sperimentale di 4 anni bisogna darsi da fare subito, se non vogliamo che di qui ad allora prevalga il partito degli scettici – che è forte nella Cgil, ma anche nelle imprese in difficoltà oggi si sta rafforzando, soprattutto tra i “piccoli” che temono una sindacalizzazione dalla quale erano sinora “felicemente” e largamente immuni.

Vado subito al punto. Poiché le forme concrete di contrattazione decentrata – aziendali soprattutto, e territoriali per grandi realtà – verranno concretamente definite da avvisi interconfederali e dai primi contratti di categoria stessa che sono già in corso di negoziazione col nuovo criterio – meccanici ed elettrici, tanto per restare ai più “pesanti – il rischio che intravedo è che la prima attuazione dei contratti decentrati lasci loro uno spazio molto esiguo.

I timori prevalgono, e di fronte a migliaia di aziende in difficoltà si può pure capire. Moltissime tra esse potrebbero voler interpretare la contrattazione decentrata innanzitutto alla luce della clausola 16 apposta all’Intesa di gennaio, cioè quella che alla luce della crisi consente per la prima volta contratti aziendali in deroga dai minimi nazionali di categoria, per fronteggiare appunto difficoltà produttive e occupazionali, come del resto previsto da altri ordinamenti di grandi Paesi quali Francia, Germania e Spagna.

Sarebbe un’interpretazione utile, in molti casi anzi essenziale, ma comunque assolutamente di retroguardia. Il problema è di incentivare al massimo imprese e sindacati a scommettere il più possibile sul secondo livello. Fin dall’inizio, per far capire ai lavoratori la sua convenienza. E per avviare in profondità nel sindacato la rivoluzione culturale che la contrattazione decentrata comporta.

Per questo, a mio avviso il governo dovrebbe immediatamente metter mano a un forte potenziamento della defiscalizzazione e decontribuzione del salario di produttività. La soglia disposta dal governo Berlusconi appena entrato in carica, confermando e attuando la norma su cui l’ex ministro Damiano tanto aveva traccheggiato, è infatti troppo bassa. Serviva solo a incentivare le parti sociali a firmare finalmente l’Intesa. Si limitava infatti il plafond di incentivi ai 650 milioni di euro annui, con un tetto al quale applicare l’incentivazione compreso al massimo entro il 5% della retribuzione contrattuale annua dei lavoratori.

Comprendo bene che nell’anno in corso vada preservato più che mai il saldo di bilancio pubblico, e oltretutto la proroga degli ammortizzatori sociali da settembre in avanti rischia di costare assai cara in termini di miliardi aggiuntivi. Ma per far decollare la contrattazione decentrata occorrerebbe estendere l’incentivo quanto meno al 12-15% dell’intera retribuzione. Se si tiene conto che nel Libro Bianco presentato da Sacconi a inizio maggio l’obiettivo programmatico indicato è di una distinzione netta a regime tra la tassazione progressiva del salario contrattuale nazionale, e quella a “cedolare secca” del salario di produttività, con un rapporto ideale di 60 a 40 tra il primo e il secondo, si tratterebbe come si vede ancora solo di un primo passo. Ma almeno un passo energico, capace di far superare d’un balzo le ubbìe alla Cgil e ai suoi iscritti, che su tutte le piattaforme stanno per il momento procedendo con l’obiettivo di intralciare al massimo grado il decollo del secondo livello.

Solo se davvero il salario di produttività diventa conveniente e incrementale da subito, sarà immaginabile un sindacato che si doti a livello territoriale di capacità interpretativa dei diversi andamenti di costo, e non solo della vita, che attualmente in Italia mancano un po’ a tutti perché scarseggiano drammaticamente basi statistiche affidabili. Solo così, sarà possibile immaginare un sindacato che entra anche nella piccola impresa ma torna a fare iscritti aggiuntivi tra i lavoratori – invece che solo sui pensionati – sulla base del maggior salario, che è capace di contrattare non antagonisticamente con l’impresa, invece che per il partito politico. Dipende da Tremonti, in larga misura. Ma sarebbe un’ottima scelta. Quasi epocale, se mi passate l’aggettivo volutamente enfatico.