Ha ragione il ministro per l’Economia, Giulio Tremonti, quando spiega che la grande crisi finanziaria e la successiva depressione economica hanno svelato un nuovo mondo. Che non è più quello del 1900. Non solo per il contesto storico, ma anche per i paradigmi e le ideologie che hanno guidato i rapporti tra gli Stati e tra le persone del cosiddetto “secolo breve”. La crisi ha messo a nudo il “re ideologico”, le grandi schematizzazioni che servivano a razionalizzare i problemi quando non si ricorreva alla barbarie della guerra.
In realtà, leggere oggi ricette di liberalismo classico, oppure di correzioni keynesiane, o ancora strade stataliste di stampo marxista nelle sue varie accezioni, fa quasi sorridere. Tremonti ha ragione pure su un’altra cosa. Se gli Stati e gli organismi internazionali durante quest’anno hanno evitato il collasso, al momento non hanno ancora messo a punto un nuovo sistema che possa prevenire una nuova grande crisi. In più, l’unico che abbia fatto un discorso “politico” di ampio respiro è stato Papa Benedetto XVI con la sua grande enciclica “Caritas in veritate”.
Va visto in questo senso l’attacco di Giulio Tremonti, o meglio l’ammonimento severo, che ha fatto alla grande finanza e alle banche, rivendicando anche in modo polemico la virtù di non “essere un economista”. Tutto è cambiato sembra dire il ministro. Ma al contrario del “gattopardo”, Tremonti fa intendere: non facciamo che “occorra cambiare tutto per non cambiare niente”.
Se è vero infatti che stiamo uscendo faticosamente dal tunnel della crisi, è anche vero che i conti finali della grande depressione devono ancora arrivare in quest’ultimo quadrimestre dell’anno. E saranno rendiconti dolorosi, dove non si possono accendere discussioni e polemiche un po’ accademiche sul pil in discesa e sul debito pubblico che sale. Ma ci si deve assumere la responsabilità di dove è nata la crisi, come si è sviluppata e come si deve bloccare in futuro.
Qui si ritorna al problema di un anno fa, quando si ammetteva pubblicamente che la crisi “era nata in banca” e si alzava il tendone sullo scenario della depressione con il fallimento di Lehman Brothers e chissà perché (un giorno lo sapremo), ad esempio, non di Goldman Sachs. La bolla del credito, lo sbilancio commerciale statunitense, il cosiddetto supermarket finanziario, non erano colpa di un’economia inceppata, ma delle ragioni di una finanza avida, visionaria e al limite dell’assurdità irrazionale.
Abbiamo già dimenticato tutto questo, mentre ci si avvia al termine della crisi? In assenza di Lehman Brothers fallita, Goldman Sachs è ritornata a macinare utili e un Barack Obama piuttosto incerto ha riconfermato Ben Bernanke alla presidenza della Fed. Ma c’è dell’altro. Mentre tutti gli Stati hanno tamponato i bilanci “sfondati” di quasi tutte le banche del mondo, non si parla più dell’assurdità della “banca universale”, dei prodotti derivati che hanno provocato il grande crack. E in più, mentre gli Stati cercano di tamponare e di intervenire, si invocano, da parte dei banchieri, riforme e ammortizzatori sociali. Giusto, ma non esageriamo.
È probabile che per uscire dalla crisi, per tamponare il grande disastro non ci fosse altra strada che salvare il “sistema” che si appoggiava sulle banche. Ma è giusta la considerazione di Tremonti che, al momento, non si è potuto intervenire, con tutta la portata necessaria, a favore di famiglie, imprese e risparmiatori «perché abbiamo dovuto sistemare il debito privato delle banche».
È una resa dei conti del dibattito dei prossimi mesi? Non si può affermarlo in modo schematico e perentorio. È invece l’ammonimento a guardare a una nuova realtà, a un mondo nuovo che è arrivato. E a non ripetere, come se nulla fosse, gli errori del passato.
Non si può quindi mettere in contrapposizione un’appassionata relazione come quella del Governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi al Meeting di Rimini, a quello che dice Tremonti. Si deve piuttosto prendere atto che da un confronto serrato, fatto “in veritate”, come suggerisce il Papa, può uscire la soluzione calibrata per affrontare l’exit strategy di questa grande crisi e quindi si potrà affrontare con maggior competenza, coraggio e fiducia anche il futuro.
Forse la crisi, alla fine, è stata paradossalmente necessaria. Tutti i paradigmi del Novecento sono andati in soffitta. Tutta la prosopopea del “guadagna facile e a breve” ha dovuto ammainare bandiera. Il problema oggi è averne coscienza e guardare con realismo a un mondo del tutto nuovo, che deve misurasi innanzitutto con nuovi protagonisti economici e rispettando sempre di più la dignità della persona umana.