Le banche italiane sono riuscite a venire fuori dalla crisi, a non essere travolte dalla tempesta perfetta che per un paio di anni ha imperversato sull’economia mondiale. Molti, a partire dal ministro Giulio Tremonti, dicono che hanno fatto meglio di tante loro concorrenti straniere perché hanno ceduto meno alle tentazioni di quella finanza creativa che ha inventato i sub prime e altri prodotti simili e che alla fine si è rivelata pericolosissima, talvolta mortale. E probabilmente è così. Qualunque sia la ragione, le semestrali presentate dagli istituti italiani mostrano dei dati tutto sommato incoraggianti: è vero che presentano dei ritorni sul capitale praticamente dimezzati, e questo dopo un 2008 che non era stato certo entusiasmante. Però si parla sempre di un utile, di un’attività che è ritornata a produrre ricchezza. E che in prospettiva – se è vero quanto assicura ormai la maggior parte degli esperti sulla crisi che starebbe per passare – ne produrrà ancora di più. Il punto è: come hanno fatto, e come stanno facendo, le banche a recuperare redditività?



La risposta è semplice e non entusiasmante: hanno ripreso le vecchie abitudini, si sono rimesse a fare finanza, sono tornate a quei modelli in voga prima della crisi e in realtà mai abbandonati proprio perché quando funzionano, danno risultati eccellenti per le banche e i loro manager. Invece sono state molto caute, strette di manica in quella che si sperava sarebbe stata la loro attività principale: sostenere l’apparato manifatturiero che è ancora ben lontano dall’uscita dal tunnel della crisi. Secondo quanto riporta l’ultimo supplemento al bollettino statistico della Banca d’Italia, la crescita dei crediti concessi dalle banche alle aziende continua a rallentare. Per l’esattezza in luglio il tasso di crescita dei prestiti alle imprese si è attestato all’1,3 per cento, contro il +2,42 per cento del mese di giugno.



È su questi dati che si basa Tremonti nei suoi ripetuti attacchi al sistema bancario (il primo al Meeting di Rimini di fine agosto, l’ultimo di un paio di giorni fa). Le critiche del ministro sono state rintuzzate da molti commentatori. Il Corriere della Sera di martedì 8 settembre ha fatto una difesa d’ufficio degli istituti di credito contro le pretese di ingerenza del mondo politico (e visti quali sono i grandi azionisti della casa editrice, da Mediobanca a Intesa Sanpaolo, la cosa non sorprende). Ma anche un commentatore acuto e distaccato da qualsiasi interesse come Francesco Forte ha messo in guardia dalla tentazione di lanciare una caccia alle streghe contro i grandi istituti.



Probabilmente nessuno, e meno che mai Tremonti, vuole partire lancia in resta contro Intesa, Unicredit, Montepaschi e via dicendo: sarebbe irresponsabile e privo di senso soprattutto se si ricorda che è stato proprio lui a varare quei Tremonti bonds che nella fase più acuta della crisi hanno dato tranquillità al mercato. Tuttavia non si possono ignorare i dati forniti da Bankitalia sulla decrescente propensione delle banche a finanziare le imprese. Un atteggiamento che avrà forse le sue fondate motivazioni (evitare di accollarsi eccessivi rischi di insolvenze), ma che potrebbe davvero mettere in ginocchio una larga parte del sistema produttivo nazionale fatto di migliaia di piccole imprese. E lo sanno bene le Banche di credito cooperativo, quelle che fino a poco tempo fa si chiamavano Casse rurali e artigiane, che invece continuano a finanziare il tessuto produttivo dei rispettivi territori perché ritengono che sia questo il loro mestiere (o addirittura la loro missione). Il lavoro fatto da queste numerose, efficienti ma piccole banche territoriali è eccellente, encomiabile. Ma non basta. L’industria italiana ha bisogno di grandi capitali che possono venire solo dai grandi istituti.